Recensione di Patrizia Marchesini

 

Chi era Elia Marcelli

 

L’Autore nasce a Roma il 3 marzo 1915 da famiglia contadina originaria di Fabrica di Roma. Il padre muore durante il primo conflitto mondiale; Elia viene messo in orfanotrofio e poi in collegio, dal quale scappa per fare ritorno nella capitale. Si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Roma, si laurea nel 1939 e – come sottotenente di complemento – nei quattro anni successivi partecipa a quattro campagne di guerra sui fronti francese, jugoslavo, greco-albanese e russo.
Invalido di guerra, viene insignito della Croce al Merito di Guerra e decorato al Valor Militare. Rimpatriato dalla Russia per congelamento, insieme a un gruppo di reduci fonda a Roma, nella clandestinità, il primo movimento pacifista italiano (LPI, Lega Pacifista Italiana).
Gli anni dell’immediato dopoguerra sono per Marcelli ricchi di iniziative: dal 1945 organizza campi di lavoro – ai quali partecipa in prima persona – per ricostruire alcuni paesi d’Abruzzo danneggiati durante il conflitto mondiale; tra il 1944 e il 1948 insegna lettere presso un liceo-ginnasio a Roma. Fonda e dirige la prima scuola media di Fabrica di Roma, intitolandola a Giacomo Leopardi.
Nel 1949 prende la decisione di emigrare e si imbarca per il Sudamerica, trascorrendo molti anni in Venezuela, impegnato soprattutto nell’attività di regista (girerà film e documentari) e spostandosi spesso tra quello Stato e l’Italia. Negli anni '60 e '70 lavora per la RAI alla realizzazione di documentari sulle diverse regioni italiane.
All’inizio degli anni '80, Marcelli torna definitivamente a Roma e riprende un progetto mai accantonato: raccontare della Campagna di Russia. Già da tempo Marcelli aveva iniziato, infatti, la stesura dei suoi ricordi in ottave romanesche. Il libro – Li Romani in Russia – viene pubblicato nel 1988.
Gli anni '90 vedono Elia Marcelli impegnato sia nella diffusione del proprio poema, sia nella scrittura di altri testi, nei quali alterna lingua italiana e dialetto.
Muore il 23 maggio 1998, lasciando come eredità molti scritti inediti e opere incompiute. Il suo archivio è stato donato dai figli Franco e Ines alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Viene sepolto, come lui desiderava, nel piccolo cimitero di Fabrica di Roma, luogo delle memorie e dei ricordi più cari, legati soprattutto all’infanzia.

 

Li Romani in Russia CopertinaQuando era bambino Elia Marcelli trascorreva le vacanze con i nonni materni nei pressi di Fabrica di Roma. Il nonno, poeta ambulante, durante l’estate era solito girare per fiere e mercati, raccontando in ottave romanesche fatti di cronaca o episodi della Prima Guerra Mondiale. Il nipotino spesso lo accompagnava. Marcelli ha quindi avuto fin da subito un rapporto molto intenso con la melodia dell’ottava popolare e, secondo il mio giudizio, se l’opera fosse stata scritta in prosa quel ritmo e quella musicalità che trascinano il lettore sarebbero stati assenti.

Il poema racconta la Campagna di Russia attraverso le vicende di un plotone inquadrato nella Divisione di Fanteria Torino. E, mediante il dialetto, l’Autore ci consegna uno schizzo dei pensieri, dei dubbi, delle paure tipici di coloro che partono per la guerra.

Tanti sono i momenti che i versi di Marcelli tratteggiano in maniera poetica ed efficace: dalla partenza della tradotta – con le donne a grappolo intorno ai vagoni – alla deportazione degli ebrei verso i campi di concentramento, a opera dei nazisti; dall’ironia amara nel descrivere i rapporti con gli alleati tedeschi al rigore del clima.

La narrazione si snoda seguendo le vicende principali della Campagna di Russia, resta incastrata a volte nei combattimenti... ci porta, infine, sulle rive del Don, da dove si accoderà alle nostre truppe in ritirata, facendoci assaggiare paura e stanchezza, fame, determinazione e a volte anche la ferocia dell’uomo che vuole sopravvivere a scapito dei suoi simili.

Se del libro mi sono piaciute tante cose, devo ammettere – però – che la postfazione dell’Autore mi ha lasciato perplessa sotto più di un aspetto.

Purtroppo Marcelli è deceduto nel 1998 ed è impossibile discutere di persona con lui alcune sue affermazioni.

In una nota, per esempio, si fa riferimento alle perdite di C.S.I.R. e ARM.I.R.: secondo Marcelli furono oltre 190.000, se nelle perdite effettive si comprendono i caduti, i feriti, i congelati e i morti in prigionia.

 

Ecco alcune cifre ufficiali, desunte da dati del Ministero della Difesa...

 

229.005  forza italiana dell’ARM.I.R. all’inizio dei combattimenti del dicembre 1942
114.485 superstiti dell’ARM.I.R. rimpatriati nel marzo 1943, a cui vanno aggiunti 29.690 congelati e feriti rimpatriati in precedenza
 89.577 perdite complessive dal 5 agosto 1941 al 20 febbraio 1943 (di queste 84.830 si riferiscono all’ARM.I.R., le rimanenti vanno addebitate al ciclo operativo del C.S.I.R.)
 10.030 prigionieri rientrati dall’Unione Sovietica, che – ovvio – all'inizio erano stati conteggiati nelle perdite non essendo presenti nella zona di raccolta di Gomel' (località dove nella primavera '43 si erano riuniti i superstiti prima del rimpatrio).

 

In proposito si può leggere anche un documento di Massimo Multari sui caduti del Fronte Orientale.

 

C’è poi tutto il discorso sui caduti, sui dispersi e sui prigionieri. Quanti furono i caduti accertati, quanti i soldati abbandonati perché fu impossibile prestare loro soccorso e quanti quelli fatti prigionieri e deceduti nei campi?

Marcelli fa riferimento a una legge che vietava ai combattenti di soccorrere i commilitoni feriti, non solo durante l’azione in battaglia, ma anche a scontro finito. Afferma che l’opera di soccorso ai feriti e l’accertamento dell’identità dei caduti spettava solo ai reparti sanitari che, secondo l’Autore, non potevano svolgere al meglio il loro compito a causa dell’insufficienza dei mezzi di trasporto per trasferire i feriti ai posti di medicazione e/o agli ospedali.

Ribadisce che di tutti i caduti durante la Campagna di Russia – a pagina 318 ne cita circa 150.000 – soltanto 5.450 furono raccolti e inumati dal personale addetto. Questi, secondo l’Autore, riposano in terra di Russia, “amorosamente custoditi in 50 cimiteri di guerra italiani”.

Conclude che per forza di cose la qualifica di disperso fu assegnata a tutti quei caduti, feriti, congelati, sofferenti o privi di forze che non si era potuti soccorrere e la cui fine non era stata accertata.

 

Di certo calcolare in modo preciso le diverse percentuali fra caduti, dispersi e prigionieri dell’ARM.I.R. è difficile. È ovvio che una buona parte di quanti non erano presenti nel marzo 1943 a Gomel' morì nel ripiegamento: le stime parlano di circa 20.000/25.000 nostri soldati deceduti durante la ritirata a causa dei combattimenti, della stanchezza, del freddo, delle ferite o dei congelamenti che rendevano impossibile continuare il cammino verso l’Italia.

Tali stime sono confermate, per esempio, dal libro di Maria Teresa Giusti (I prigionieri italiani in Russia, edito da Il Mulino): l’Autrice parla di un balletto iniziale di cifre, pubblicato a più riprese sulle fonti ufficiali sovietiche. Ma dal 1992 il nostro Governo iniziò a ricevere tabulati russi, con i nomi di 64.500 prigionieri di guerra italiani. 38.000 si riferiscono a deceduti nei lager, poco più di 10.000 – come abbiamo visto – rientrarono dalla prigionia.

 

Se le cifre relative ai morti in prigionia presenti nel libro della Giusti furono pubblicate quando Marcelli era già deceduto, mi pare strano però che l’Autore non sapesse dell’apertura degli archivi sovietici all’inizio degli anni '90, o che i nostri cimiteri di guerra non esistono più. In alcuni casi furono i Sovietici a distruggerli con i mezzi corazzati durante la loro avanzata verso Ovest; in altri, nel dopoguerra, vi si costruirono sopra edifici dagli usi disparati. Possibile che Marcelli non conoscesse le difficoltà incontrate da Onorcaduti nel reperire non solo le tante fosse comuni in cui furono sepolti i nostri soldati, ma anche i cimiteri amorosamente custoditi? Questi ultimi sono stati localizzati soprattutto grazie alle piantine disegnate dai cappellani militari.

Possibile, inoltre, che Marcelli – reduce di Russia – non sapesse o non si fosse documentato sulla data effettiva del rientro dei nostri prigionieri di guerra dall’Unione Sovietica? Egli afferma che i 10.030 rimpatriati dalla prigionia furono restituiti al nostro Paese il 12 febbraio 1954 (insieme ad altri circa 10.000 Italiani, prigionieri dei Tedeschi dopo l’8 settembre 1943 e deportati in U.R.S.S. in seguito all’arrivo delle truppe sovietiche).

In realtà i prigionieri di guerra italiani tornarono in patria a partire dall’autunno 1945 (se ci si riferisce in modo particolare ai militari di truppa), mentre gli ufficiali rientrarono solo dopo il 2 giugno 1946. I tre generali di Divisione (Battisti, Pascolini e Ricagno) furono liberati nel 1950. Altri vennero in effetti trattenuti fino al 1954.[1]

 

Nella postfazione di Marcelli è comunque presente un’analisi delle ragioni che condussero all’epilogo drammatico della Campagna di Russia: è indubbio che prima il C.S.I.R. e poi l’ARM.I.R. dovettero affrontare grandi difficoltà.

Ma è altrettanto certo che sull’argomento circolano molti luoghi comuni, come quello riguardante gli scarponi dei nostri soldati, che ancora oggi alcuni credono fossero di cartone.

I nostri mezzi di trasporto erano in effetti insufficienti come numero. Durante il ripiegamento avrebbero comunque potuto fornire un contributo essenziale nel trasportare feriti e congelati o nel traino delle artiglierie, se i Tedeschi avessero provveduto al carburante necessario come da accordi.

Riguardo agli armamenti, il nostro 91 – tanto ridicolizzato – era stato concepito sì nel 1891, ma negli anni aveva subito modifiche e migliorie per renderlo più attuale. Le versioni più recenti erano i 91/38 e i 91/41 (dove 38 e 41 indicano appunto l’anno della modifica). Si potrebbe aggiungere che più o meno tutte le armi lunghe utilizzate dalle varie potenze durante il secondo conflitto mondiale derivavano da modelli della fine del XIX secolo. Il più nuovo era lo Springfield americano, nato nel 1903. Anche i Sovietici erano dotati di fucile, il Mosin-Nagant 91/30. Non tutti avevano il famoso PPSh, arma automatica in grado di contenere fino a 71 colpi.

Al di là di questo, le armi controcarro erano comunque non del tutto idonee. Parecchie testimonianze raccontano che i proiettili rimbalzavano sulle corazze dei carri sovietici di nuova generazione. Esiguo, inoltre, il numero di bocche da fuoco di grosso calibro.

Un punto debole molto evidente era la carenza assoluta di mezzi corazzati. Bisogna però ricordare che anche in questo caso vigevano accordi con l’alleato tedesco: le Divisioni corazzate germaniche avrebbero dovuto supportare le nosre Unità. Purtroppo a partire dall’autunno 1942 la situazione sul fronte di Stalingrado obbligò i Tedeschi a spostare tali Divisioni e l’8ª Armata italiana venne a trovarsi sguarnita alle spalle e con il fianco destro in pericolo a causa dell’apertura di due falle nello schieramento della 3ª Armata romena.

 

Concludendo... Potremmo parlare dell’ampiezza spropositata del fronte assegnato all’ARM.I.R., dei valenki – tipiche calzature sovietiche in feltro che non stringevano il piede e non ostacolavano la circolazione agli arti inferiori e mai consegnate in tempo ai nostri soldati (fatta eccezione per pochi casi, come quello di reparti della Julia)... Potremmo parlare delle apparecchiature radio molto pesanti, adatte – quindi – a una guerra di posizione e non di movimento, della loro sensibilità alle basse temperature che rese sempre difficoltosi i collegamenti (testimonianza dell’allora sottotenente Gariboldi, figlio del generale che comandava l'Armata italiana).

Senza sminuire i problemi affrontati dall’ARM.I.R. spesso mi chiedo se la ragione principale di tanti lutti nelle famiglie italiane non sia in fondo molto semplice: loro erano tantissimi e noi troppo pochi.

Ho scritto volutamente semplice. Si potrebbe obiettare che i soldati italiani non sarebbero mai dovuti partire per il Fronte Russo.

Sulla decisione di Mussolini di inviare un Corpo di Spedizione Italiano ha pesato di più il desiderio del duce di sdebitarsi in qualche modo con Hitler per l’intervento tedesco in Grecia oppure quello di appropriarsi di materie prime preziose per il nostro Paese? L’Italia che aggredisce un altro Stato scandalizza molte persone, al giorno d’oggi.

Ma URSS e Germania, con il Patto Von Ribbentrop-Molotov del 1939 avevano gettato le basi: dopo la spartizione della Polonia, l’Unione Sovietica assorbì le Repubbliche Baltiche. Hitler proseguì nella sua invasione dell’Europa, mentre Stalin cercò di accaparrarsi la Finlandia. La Germania sconfisse la Francia e i Russi si presero la Bessarabia e la Bucovina Settentrionale, appartenenti alla Romania.

Senza dimenticare che le civilissime Francia e Gran Bretagna avevano fior di colonie.

Sono cosciente che queste mie riflessioni sono un po’ il tentativo di darsi una spiegazione, sono lo sforzo – di sicuro inadeguato – di comprendere perché tante persone non sono tornate a casa.

Non cerco in alcun modo di giustificare. Solo, a furia di leggere e oltre il coinvolgimento personale che l’avere perso mio nonno senza averlo mai conosciuto comporta, mi rendo conto che – oltre al bianco e al nero – esistono zone di grigio che sarebbe interessante indagare e conoscere.

 

 

Elia Marcelli, Li Romani in Russia, Edizioni il cubo, Roma, 2008

 

[1] A tale riguardo: Gli ultimi 28, Bigazzi-Zhirnov, Mondadori – Le scie - 2002

 


 

Leggi anche un brano del libro.

 

 

 


Usiamo i cookies per migliorare il nostro sito e la vostra esperienza nell'utilizzarlo. I cookies usati per le operazioni essenziali sono già stati impostati. Per ulteriori informazioni sui cookies che utilizziamo e su come cancellarli, leggete la nostra privacy policy.

  Accettate i cookies da questo sito?