Da 12 anni di prigionia nell'URSS, Enrico Reginato, Edizioni Canova, Treviso

 

enrico reginato 20130513 1710145872Caddi prigioniero durante un'imboscata.

Il Battaglione [Monte Cervino, n.d.r.] combatteva nel bacino del Donetz e precisamente in quel cuneo, formatosi nella primavera del 1942, il cui vertice era rivolto verso Stalino. La sera del 28 aprile iniziammo una marcia notturna.

La colonna procedeva lenta sul terreno fangoso, quando improvvisamente il piccolo gruppo con il quale mi trovavo, alquanto staccato dal grosso del reparto, fu aggredito alle spalle e ai fianchi da truppe sovietiche.

I Russi aprirono un fuoco micidiale di armi automatiche e, favoriti dalla sorpresa, riuscirono a sopraffarci dopo breve e sanguinosa lotta. Appena catturato, fui condotto in un vicino villaggio, assieme a un altro soldato, Erminio Avidano. Un gruppo di Sovietici, con l'uniforme in disordine, ci accolse con scherni e percosse.

Prima di togliermi la pistola si preoccuparono di spogliarmi dell'orologio da polso: il regalo di mio padre il giorno che conseguii la laurea. Minuziosamente perquisito, mi vennero tolti tutti gli oggetti personali, che costituivano un caro ricordo, un legame col mio passato e con la mia famiglia.

Sempre di notte fui accompagnato alla sede di un accantonamento, dove brulicavano in strana promiscuità soldati e donne in uniforme. Subii un primo interrogatorio in tedesco, lingua che allora conoscevo poco, durato un paio d'ore. L'inchiesta proseguì nei due giorni successivi, durante i quali nessuno si preoccupò di darmi un po' di cibo. Alcuni ufficiali si alternavano nell'interrogatorio.

 

Conservo un preciso, nitido ricordo del mio primo contatto con i sistemi sovietici di inquisizione. Ora mi si interrogava con tono bonario e pacato, ora mi si aggrediva con invettive sprezzanti che intuivo, più che capire: qualche ufficiale usava la maniera suadente, conciliante; qualche altro, invece, si abbandonava a scatti d'ira per strapparmi confessioni di notizie che ignoravo o che non volevo dire.

Un pomeriggio, scortato da alcuni armati, fui accompagnato per una passeggiata verso un bosco vicino. Gravi e silenziosi, i soldati avevano tutta l'aria di un plotone di esecuzione. Temetti di essere fucilato: era invece una minacciosa commedia per indurmi a parlare, a rivelare informazioni sulla consistenza delle forze italiane e germaniche. Intanto, costretto al digiuno da oltre cinquanta ore, non mi reggevo più. Anche fisicamente non ero in condizione di subire altri interrogatori.

 

Il quarto giorno fui caricato su un autocarro, assieme al soldato Avidano. Solo allora, alla partenza, mi fu dato un pezzo di pane secco e qualche patata lessata. Fummo trasferiti in un villaggio e rinchiusi in uno scantinato, dove si trovavano alcuni Tedeschi.

Due giorni dopo ci trasportarono in un altro carcere rigurgitante di soldati tedeschi, molti dei quali feriti. Essi formavano un'accolta di uomini abbrutiti dalla segregazione, con la divisa a brandelli, la barba lunga, le guance scavate. Erano rinchiusi in quella sudicia stanza da una ventina di giorni e non avevano avuto la possibilità di uscire un istante per lavarsi e prendere un po' d'aria.

I pidocchi, annidati nei vestiti logori, tormentavano quei corpi denutriti. In un angolo, separati dagli altri, giacevano alcuni uomini colpiti da cancrena. I piedi coperti di piaghe, fasciati con degli stracci, posavano sul pattume del pavimento.

 

 


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