Da La ritirata di Russia, Egisto Corradi, Nordpress, Chiari (BS), 1999

 

La ritirata di Russia copertinaApolloni, l'attendente.

Mio attendente in Grecia e in Russia. Apolloni Carlo, classe 1919, da Carrè, primi colli sotto l'altopiano di Asiago, provincia di Vicenza.

Salgo in automobile a cercarlo, vent'anni dopo.

Campagne ubertose, cantieri dappertutto, stabilimenti e stabilimentini nati con il miracolo economico.

L'ufficio anagrafe di Carrè è chiuso.

"Non sapremmo", mi dicono in un caffè.

"Gli Apolloni qui a Carrè sono parecchi. Vi sono gli Apolloni ricchi che fabbricano burro, è una famiglia grande, sarà uno di loro."

No, Apolloni non era ricco.

"Molti si sono arricchiti con la guerra, sa."

No. Apolloni non era tipo da rimanere coinvolto nel miracolo, lui.

Cerca e ricerca, un bottegaio mi indica il posto giusto.

"È fuori paese, sotto quella collina. Deve essere lui. Fa il carpentiere."

Spero che sia lui. Che non sia morto in questi vent'anni, mi dico.

A un casolare domando di nuovo: "Apolloni, Apolloni Carlo, carpentiere, alpino, campagne di Grecia e di Russia."

"Grecia e Russia? Ho paura di sì", mi risponde uno, indicando con il braccio alcune casette poco lontane.

"Ho paura di sì." La paura non c'entra, è un modo di dire veneto; ma nel caso specifico si attaglia bene, ha l'aria di voler dire "ho paura che quel disgraziato abbia fatto Grecia e Russia."

Davanti al gruppo di case domando ancora.

"Sì, qui. Ha moglie e quattro figli. Eccone là uno."

La moglie di Carlo Apolloni viene avanti un po' stupita. "S'accomodi, s'accomodi."

La cucinetta è straordinariamente linda.

Mi si offre vino e salame.

"Carlo lavora in un cantiere a Thiene, è là. Ci sono cinque chilometri."

Bevo un bicchiere.

"Siamo povera gente, scusi tanto. Se va a Thiene lo trova. Dovrebbe essere in un cantiere della ditta Panozzo, verso la stazione."

Trovo il cantiere.

Si sta costruendo un edificio di cemento armato, il soffitto tra pianterreno e primo piano è ancora tutto puntellato.

"Il carpentiere Apolloni?" C'è un gran polverone.

"Eccolo là, quello di spalle. Apolloni, i te zerca!"

Apolloni si volta, ha le braccia cariche di trucioli di legno segati dalle armature. Vedo che le braccia gli si aprono, che i trucioli cadono. "Sior tenente Corradi!"

Gli altri ci guardano.

Apolloni spiega affannato: "Il mio tenente. Grecia e Russia. Il mio tenente."

Gliene frega agli altri, di Grecia e Russia, di tenenti e di attendenti, di Julia e non di Julia.

"Diese minuti", domanda al capo cantiere l'attendente Apolloni.

"Il tempo di bere un bianco." Apolloni non legge mai i giornali.

Lavora e basta.

È molto più magro di venti anni fa.

"Ormai", dice "sono quarantaquattro anni, sulle armature alte incominciano a tremarmi le gambe."

Gli mostro la bussola.

"Ah!" si ricorda.

"Della sacca", dice impallidendo un po', "mi ricordo tutto. Ma non ne parlo, quando ci penso mi vengono ancora i brividi."

Beviamo adagio e parliamo.

"E lu", mi chiede Apolloni.

"Si ricorda di quando sono stato ferito al braccio?"

No, non mi ricordo. "Ma come, non si ricorda? Che lei mi spinse avanti per quattro giorni, con le buone e con le cattive, che lei mi spingeva avanti?"

Forse mi ricordo, forse no. Cos'era una ferita a un braccio, in quei giorni?

Ma forse sì, mi riaffiora alla mente l'immagine di Apolloni con un braccio rattrappito, tirato su sotto l'ascella come la zampa di un uccello.

Forse sì.

Adesso il carpentiere Apolloni si tira su la manica destra della camicia, mi mostra una lunga cicatrice. È rosa, incipriata di polvere di cemento.

"E non si ricorda che lei mi portò all'ospedale di Karkov e che i carri russi entrarono nel cortile mentre noi cercavamo un medico e noi scappammo allora dall'altra parte?"

Mi pare di ricordare. Mi pare.

Come ricordare tutto, con tante cose che succedevano.

Apolloni abbassa la voce: "E quell'ufficiale tedesco, si ricorda?"

"Quale ufficiale tedesco?"

Apolloni mi guarda.

"Quell'ufficiale tedesco che gridava 'raus con la pistola in mano, che voleva buttarci fuori dall'isba quella notte. Sior tenente, lei lo ga copà, non si ricorda?"

No che non mi ricordo, sinceramente.

"Non mi ricordo, Apolloni", dico.

Apolloni sembra esitare.

"Sì, lo gaveimo copà."

"Ma chi lo ammazzò?" dico. "Io non mi ricordo."

Apolloni mi guarda, mi pare di capire che egli non crede che io non mi ricordi.

Torno a domandare: "Ma chi fu ad ammazzarlo?"

E Apolloni: "Lei. Noi. Sì, sior tenente. Cadde giù come al cinema, avvitandosi."

Non mi ricordo davvero, non mi pare di ricordarmi.

Potrei avere dimenticato, però.

Strano che io abbia dimenticato di avere ammazzato uno con un colpo di pistola. Beviamo altri due bicchieri, ci avviamo verso il cantiere, ci salutiamo abbracciandoci. Apolloni scompare nel polverone. Salgo in automobile, m'avvio lentamente. Ripenso al Tedesco. Mi fermo. Qualcosa mi punge in tasca, è la bussola di Russia. L'apro e la guardo, lascio oscillare a lungo l'ago. La strada, davanti, corre tra due file di platani. È deserta, l'asfalto luccica. Quel Tedesco, mi dico. Cos'era, penso, la vita di un Tedesco o di un Italiano o di un Russo in quei giorni?

Niente.

Niente, ma mi piacerebbe ricordarmi.

Mi guardo nello specchietto retrovisivo, da vicino, dentro gli occhi, dentro le pupille. Il guardarmi così mi ha sempre procurato un leggero sottile sgomento.

Quest'oggi ancora di più.

Quel Tedesco, chissà.

 

 

 


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