di Patrizia Marchesini 

 

I prigionieri di guerra italiani in URSS copertina

 

Nel 2006 Prospettiva editrice pubblicò il volume di Luca Vaglica, all'epoca neolaureato in lingua e letteratura russa. Basandosi su fonti disparate (dalla memorialistica ai saggi, dai documenti ufficiali custoditi presso l'Archivio USSME ai numeri del giornale L'Alba), l'autore analizza in dettaglio la prigionia dei nostri soldati nei campi dell'ex Unione Sovietica... prigionia contraddistinta da una capillare propaganda e dal tentativo costante di rieducare politicamente i militari italiani (nonché quelli di altre nazionalità).

 

 

19 ottobre 2011

 

In primo luogo...  chi è Luca Vaglica e come mai si è interessato a questo argomento?

Luca Vaglica attualmente è un insegnante di lingua inglese e accompagnatore turistico trentacinquenne. Ai tempi della scrittura del libro era un neolaureato in lingua e letteratura russa. L’interesse è nato principalmente grazie alla passione per la storia contemporanea e per il periodo della Seconda Guerra Mondiale in particolare. La specificità dell’argomento trattato deriva invece da una vicenda familiare di un prozio della Julia disperso in Russia.

 

Su quali testi ha basato le sue ricerche?

I testi su cui mi sono basato per le mie ricerche sono essenzialmente di quattro tipi: memorialistica dei reduci dalla Campagna e dalla prigionia in URSS (ufficiali, soldati semplici, cappellani militari, “trattenuti”); saggi storici, la maggior parte dei quali derivanti da convegni sul Fronte Orientale e sulla prigionia in URSS; “L’Alba, 1943-1946”; documenti originali recuperati all’Archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

 

Sulla base dei testi consultati, quali consiglierebbe a chi vuole avvicinarsi al tema della prigionia nell'ex Unione Sovietica?

Non esistono libri privilegiati o consigliabili. Chiunque voglia addentrarsi e cercare di capire cos’è stata la prigionia in URSS dovrebbe leggere almeno un libro tratto dai quattro filoni da me appena descritti. Se si vuole un panorama generale che tocchi tutte le quattro categorie, be’, allora consiglierei la lettura del mio libro.

 

Il generale Gariboldi elencò i motivi della sconfitta dell’Arm.I.R.: estensione eccessiva del fronte in rapporto alle forze disponibili, mancanza di riserve, difesa lineare, mezzi di trasporto e combustibile insufficienti, imposizione – da parte germanica – di una difesa rigida, superiorità delle forze sovietiche (in particolar modo dei reparti corazzati), caparbietà tedesca nel rimanere sul Don, stima errata delle possibilità dell’avversario... lei è d’accordo?

Sì, sono completamente d’accordo con l’analisi del generale Gariboldi e non c’è altra spiegazione come confermano anche le fonti sovietiche stesse. Aggiungerei inoltre che per Italia e Germania si trattava di una guerra d’aggressione mentre per il popolo russo è diventata la seconda Grande Guerra Patriottica, dopo la prima combattuta contro Napoleone, capace di unire tutti (anche gli oppositori di Stalin) in un’unica grande lotta di liberazione dai nazifascisti. Vi sono poi stati anche errori di valutazione dei Tedeschi. Il primo fu il comportamento barbaro avuto nei confronti della popolazione civile ucraina che avrebbe visto l’esercito nazista come un liberatore contro l’odiato Stalin, ma che ben presto fu costretta a cambiare idea. Il secondo fu la sottovalutazione dell’esercito rosso ritenuto allo sbando dopo le purghe staliniane che ne avevano decapitato i vertici. Il terzo l’avere ripetuto l’errore, già costato molto caro a Napoleone, di non avere considerato a dovere l’immensità del territorio russo con tutte le conseguenze negative per chi attacca.

 

Partendo dal fatto che non sarà mai possibile stabilire il numero esatto dei soldati italiani catturati dall’Armata Rossa, condivide l’opinione che l’elevatissima mortalità dei prigionieri sia dovuta a difficoltà organizzative, alla noncuranza generalizzata di chi si trovò a dover gestire un così alto numero di prigionieri? Secondo Giordano Marchiani e Gianfranco Stella (Prigionieri italiani nei campi di Stalin, pag. 161) la teoria dell’impreparazione sovietica nella gestione dei prigionieri va quanto meno ridimensionata...

Sono d’accordo con le conclusioni cui sono giunti Valdo Zilli (storico e reduce dalla prigionia di Russia) e altri reduci, come documentato nel DS 2271/C dell’AUSSME, che testimoniano come non ci fosse premeditazione, ma solo impreparazione nella gestione dei prigionieri arrivati così numerosi in un momento tragico per tutta l’URSS. Condivido solo in minima parte il giudizio di Marchiani e Stella. La popolazione civile russa era alla fame, stremata prima dalle purghe staliniane e poi dalla guerra di aggressione nazifascista, essendo tutti gli sforzi concentrati al fronte. Se è vero che dopo i primi terribili mesi nei campi di smistamento (gennaio-maggio 1943), con lo spostamento nei lager definitivi e la divisione tra ufficiali e truppa la condizione generale andò lentamente migliorando, è altrettanto vero che i Russi, più per mancanza di mezzi e di preparazione che per vera e propria ostilità e vendetta, non si prodigarono mai per migliorare le condizioni di vita nei campi. Più prigionieri morivano e meglio sarebbe stato: questo, in breve, il pensiero corrente. Almeno fino al prikaz di Stalin (“Nessuno deve più morire!”) i prigionieri nazifascisti erano l’ultima delle preoccupazioni.

 

Tambov, Krinovaja, Mičurinsk... nomi famosi per chi si interessa dei prigionieri italiani nell'ex Unione Sovietica, ma sconosciuti alla maggior parte della gente. Perché, secondo lei? Come mai si parla tanto di Mathausen o di Buchenwald, di Dachau o di Maidanek e quasi per niente dei campi in cui moltissimi persero la vita?

Perché i campi di concentramento nazisti hanno da sempre monopolizzato la storiografia del dopoguerra. Non dimentichiamoci che sono stati i Russi i primi ad arrivare a Berlino e a decretare la fine del Terzo Reich. L’URSS di Stalin, insieme a Churchill e Roosevelt, era una potenza vincitrice, la Germania un paese sconfitto... e come sempre accade sono i vincitori e mai i vinti a scrivere la storia.

 

Non mi addentro nei dettagli delle diverse tappe affrontate dai nostri soldati – dal momento della cattura all’arrivo nei campi d’internamento veri e propri – ma una cosa mi incuriosisce e vorrei il suo parere: ho letto anni fa un libro da lei citato più volte, Il tragico Don di Vladimir Galicki, e mi ha sempre colpito – quasi infastidito, a dire il vero – l’elencazione delle regole stabilite in materia di trattamento dei prigionieri di guerra, in quanto la maggior parte dei reduci afferma che tali disposizioni rimasero troppo spesso pura teoria...

Purtroppo è così, le regole c’erano, ma non sempre furono fatte rispettare. C’è da considerare che ad occuparsi dei prigionieri di guerra non c’era l’esercito regolare, ma gruppi misti che comprendevano cosacchi, asiatici, partigiani formati da uomini e donne giovanissimi, ma pieni di profondo odio verso l’aggressore.

 

Al di là delle condizioni di vita nei campi – definite fisiologicamente impossibili da Enrico Reginato, ufficiale medico rientrato dalla prigionia nel 1954 – mi sono sempre chiesta quanto abbia influito, sui prigionieri, l’impossibilità di corrispondere con le proprie famiglie.

Sicuramente il non poter corrispondere coi propri cari – almeno fino al 28 gennaio 1945, data in cui fu emesso un decreto che dava la possibilità di inviare una cartolina al mese (previo controllo della censura sovietica) – influì in maniera determinante sul morale dei prigionieri tanto quanto le altre privazioni di cui già soffrivano all’interno dei campi. Le prime lettere dall’Italia arrivarono ai prigionieri del campo di Suzdal’ solamente alla fine del 1945 a guerra ormai terminata. L’unico modo che i prigionieri ebbero durante tutta la prigionia per far sapere ai  propri congiunti di essere ancora in vita era la firma agli Appelli al popolo italiano, che venivano mandati dai vari campi, anche se spesso non erano d’accordo sui contenuti degli stessi.

 

Oltre al dramma dei prigionieri di guerra, lei accenna a quello dei fuoriusciti politici italiani, vittime a loro volta del sistema sovietico a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. Se da un certo punto di vista è comprensibile lo scarso interesse di Togliatti per quanto dovettero affrontare in seguito i prigionieri italiani, non capisco la sua inerzia nel prendere le difese dei suoi stessi compagni di partito.

Perché anche per Togliatti valeva il principio che al primo posto c’erano il Partito Comunista sovietico e Stalin, dal quale il PCI direttamente dipendeva e ai cui ordini doveva sottostare. Partendo da questo presupposto diventa logico il suo comportamento di totale sottomissione a Stalin per non essere lui stesso radiato e inviato nei gulag. Dalla metà degli anni ’30 ben un terzo dei circa 600 fuoriusciti italiani in URSS subì l’arresto e la deportazione nei gulag, dove molti di essi morirono.

 

Tuttavia, nonostante l’arresto o la deportazione di circa duecento degli oltre seicento fuoriusciti, un certo numero di essi partecipò attivamente al progetto di rieducazione politica nei campi di prigionia. E qui arriviamo alla differenza fondamentale tra i campi di prigionia sovietici e quelli inglesi, americani o francesi. Vorrebbe parlarcene?

La peculiarità dei campi di prigionia dell'URSS rispetto a quelli delle altre nazioni è sicuramente il lavoro di propaganda compiuto ininterrottamente nei campi sovietici. Se tanta fu la disorganizzazione e l’incompetenza nell’accogliere e custodire i prigionieri di guerra, altrettanta fu l’organizzazione impeccabile del lavoro di propaganda eseguito a livello di massa e dalle scuole di antifascismo. I fuoriusciti italiani, che divennero poi istruttori politici nei campi, provenivano in gran parte dalla scuola leninista di Mosca (chiusa nel 1943). Il lavoro da essi compiuto a livello di massa era rivolto a tutti i prigionieri al fine di farli diventare dei veri antifascisti, e si strutturava in interrogatori (chiamati “colloqui individuali”), conferenze, appelli, giornali murali... senza dimenticare – ovvio – il giornale L’Alba. Solamente i “migliori” avevano il privilegio di essere ammessi a frequentare le scuole di antifascismo. Alcuni ci andavano perché ormai antifascisti convinti, molti altri perché, fingendosi tali, avrebbero avuto condizioni di vita nettamente migliori.

 

Tre furono gli strumenti adottati per far comprendere ai prigionieri di guerra i benefici e i vantaggi derivanti da un regime quale quello sovietico: l’opera dei commissari politici e dei fuoriusciti italiani, la diffusione del giornale L’Alba e le scuole di antifascismo o di educazione marxista. Come reagirono i prigionieri alla propaganda?

Pochi ci credettero davvero e divennero dei veri antifascisti, alcuni fecero finta di crederci per convenienza, altri ancora rimasero tenacemente ancorati alle posizioni monarchiche e fasciste, ma la stragrande maggioranza preferì non prendere una posizione netta e vincolante, rimanendo imparziale nella lotta intestina che i Russi fomentavano continuamente all’interno dei campi.

 

Chi studiava presso le scuole di antifascismo? Quali erano i criteri per esservi ammessi?

Ogni scuola di antifascismo aveva delle precise regole di ammissione. Della scuola di Taliza parlo alle pagine 152-153; per quella di Krasnogorsk, invece, si vedano le pagine 155-156.

 

Come anche lei ha rimarcato, se i Sovietici dimostrarono una grande inefficienza nell’occuparsi delle necessità materiali e quotidiane dei prigionieri di guerra, furono invece molto diligenti nell’organizzarne fin da subito la rieducazione politica. Dal gennaio 1943 fecero la loro comparsa giornali indirizzati ai prigionieri delle diverse nazionalità. L’Alba era il giornale per gli Italiani, realizzato dagli Italiani. Il primo numero uscì il 10 febbraio 1943. Vuole parlarcene, almeno a grandi linee?

L’Alba fu pubblicato per 144 numeri dal 10 febbraio 1943 al 15 maggio 1946, in lingua italiana, e fu stampato inizialmente a Mosca su iniziativa di un gruppo di emigrati politici comunisti italiani sotto la sorveglianza del dipartimento politico generale dell’esercito sovietico. Solo in un secondo momento la redazione venne trasferita nel campo di Krasnogorsk, nel settore italiano della scuola superiore di antifascismo. Da questo momento, oltre ai fuoriusciti comunisti italiani che costituivano il comitato di redazione e agli autori sovietici, iniziarono a scrivere sul giornale anche i prigionieri che avevano frequentato la scuola di antifascismo. Stessa facoltà avevano coloro che apponevano la propria firma agli innumerevoli Appelli al popolo italiano. Il giornale L’Alba è sempre stato costituito da quattro pagine. La prima era generalmente dedicata alle operazioni sul Fronte russo-tedesco, sottolineando i continui successi dell’esercito rosso. La seconda conteneva articoli di elogio e apologia del sistema sovietico, della sua organizzazione sociale e politica, delle realizzazioni dell’industria e dell’agricoltura. La terza pagina raccoglieva articoli, scritti dagli internati stessi di appurata fede antifascista, sulla condizione di vita nei campi. La quarta e ultima pagina conteneva le notizie provenienti da tutto il mondo riportate nella “Rassegna internazionale”.

 

Cosa si prefiggeva L’Alba? Come affermò il colonnello De Santis nel 1984 il giornale non sarebbe potuto essere che filorusso, in quanto le autorità sovietiche avrebbero di sicuro censurato qualunque altro orientamento. Qual è dunque, il merito dell’Alba? E quali i suoi difetti?

Il merito è che le notizie in esso contenute, soprattutto quelle della prima pagina, se adeguatamente filtrate, potevano aiutare i prigionieri a capire l’andamento della guerra. Il difetto per eccellenza è che era sfacciatamente filosovietico e per questo poco credibile perché i prigionieri, uscendo dai campi per recarsi al lavoro, erano perfettamente a conoscenza delle reali condizioni di vita del popolo russo.

 

Molti articoli descrivevano la vita nei campi e cercavano di dare un’immagine dell’Unione Sovietica e dei progressi realizzati dallo stato socialista...

L’Alba era volutamente e dichiaratamente un giornale filosovietico ed era quindi normale, vista la sua vocazione, che presentasse l’URSS come la Patria dei lavoratori. Tutto in essa era all’avanguardia: dall’agricoltura all’industria, dalla politica (un articolo descriveva la Costituzione sovietica come la più democratica al mondo) alla cultura, offrendo in questo modo una visione propagandistica e marcatamente falsificata della realtà che i prigionieri potevano constatare ogni giorno quando uscivano dai campi per recarsi ai vari lavori.

 

L’Alba e l’8 settembre: vi furono mutamenti sostanziali per il giornale?

Fin dal suo primo numero aveva sempre cercato di formare tra i prigionieri italiani degli antifascisti che potessero ribellarsi a quel regime che li aveva spinti a combattere contro il popolo sovietico. Gli appelli contro la guerra fascista e contro il regime sono sempre stati presenti sul giornale e l’8 settembre non fece altro che farli aumentare in numero e frequenza, al punto che ormai i prigionieri stessi non ne potevano più di firmarli in continuazione. L’unica cosa che veramente premeva ai prigionieri, soprattutto dopo la dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre ’43 e che non fu mai concessa, era la creazione di un esercito garibaldino che li portasse ad affrancarsi dalla condizione di prigionieri per diventare cobelligeranti coi Russi e combattere per la liberazione dell’Italia.

 

Una delle prerogative del giornale fu quella di presentare l’avanzata dell’Armata Rossa verso occidente non solo come una successione di vittorie militari, ma come la prova tangibile della superiorità dello stato socialista. L’avanzata parallela delle truppe angloamericane venne sempre messa in secondo piano: allo sbarco in Normandia, per esempio, furono dedicate tre righe, e anche lo sgancio della prima bomba atomica su Hiroshima venne minimizzato. Una sorta di anticipo di guerra fredda...

Sicuramente sì, la divisione in blocchi contrapposti era già evidente anche su un giornale per prigionieri di guerra come L’Alba.

 

La questione dei prigionieri, e poi il rimpatrio dei pochi sopravvissuti, fu motivo di tensione diplomatica tra due Paesi che, dopo l’8 settembre 1943, erano divenuti cobelligeranti. Può raccontarci qualcosa in merito?

I Russi – anche dopo che Italia e URSS erano diventati cobelligeranti e, soprattutto, anche a guerra finita – hanno sempre ritardato con ogni mezzo, adducendo pretesti ogni volta diversi, il rimpatrio dei pochi prigionieri italiani rimasti nei campi. Oltretutto l’URSS ha sempre mancato di reciprocità con l’Italia perché non si è mai degnata di comunicare il numero dei prigionieri italiani presenti nei campi in tutti gli anni di prigionia dal 1943 al 1946. L’ambasciatore Quaroni a Mosca ha più volte richiesto alle autorità sovietiche di far rientrare prima i prigionieri italiani anche attraverso la costituzione di unità militari formate da prigionieri che avrebbero potuto combattere a fianco dei Russi stessi, ma senza esito. In un telespresso del Ministero degli Affari Esteri italiani vengono date, come motivazione del mancato rimpatrio dei prigionieri, l’interruzione della consegna da parte del Governo italiano delle liste nominative dei prigionieri russi presenti in Italia e le presunte atrocità commesse dai reparti italiani in territorio sovietico. In realtà i prigionieri non furono rimpatriati prima perché avrebbero dato dell’URSS una visione diametralmente opposta a quella idilliaca presentata sul giornale L’Alba con la possibilità di condizionare l’esito del referendum del 2 giugno 1946 e perché costituivano un’utilissima forza-lavoro a costo zero quando la gran parte dei Russi era impegnata al fronte.

 

Nel suo libro è presente parte di un rapporto del 25 maggio 1945, indirizzato dall’Ambasciata d’Italia a Mosca al nostro Ministero degli Affari Esteri. Lo ritengo abbastanza efficace nel descrivere l’atteggiamento del Governo sovietico in merito alla questione-prigionia. Lei è d’accordo con quanto riportato in tale documento?

Sì, descrive efficacemente la mentalità sovietica riguardo ai prigionieri di guerra, sia propri che nemici... mentalità diametralmente opposta a quella italiana.

 

Il rimpatrio: i reduci dalla prigionia spesso vennero accusati di raccontare falsità su quello che da una parte degli Italiani era ritenuto il paradiso dei lavoratori. Il rientro dei prigionieri, soprattutto degli ufficiali, scatenò numerose polemiche non solo nel mondo politico, ma anche fra la gente comune. Ci racconti qualcosa sui prigionieri trattenuti per anni e incolpati di crimini di guerra, sui processi a cui furono sottoposti.

Tredici ufficiali ed un sergente, i cosiddetti “puniti”, tutti provenienti dal campo 160 di Suzdal’, furono trattenuti nei lager sovietici per parecchi anni a causa di delazioni e false accuse lanciate dai fuoriusciti comunisti italiani (istruttori politici nei campi) e dai prigionieri convertiti al verbo comunista. All’inizio furono inviati nel campo di punizione di Susslongher – definito dal maggiore Massa il “campo del silenzio” in quanto non si poteva né scrivere, né inviare, né ricevere lettere – situato nella Repubblica autonoma dei Mari, sulla Volga tra Gorkij e Kazan’; da lì in seguito vennero trasferiti al campo dell’NKVD 7062/4 di Kiev. In questo nuovo lager arrivarono altri sottufficiali e soldati provenienti dal campo 29 di Pahta Aral. Le accuse per tutti erano sempre le stesse: nessuna concessione alla propaganda comunista, rifiuto di firmare gli appelli e false dichiarazioni, scarso rendimento al lavoro e tentativi di fuga. Ad esse si aggiunse un’imputazione generale che fu la causa del trasferimento al lager NKVD di Kiev: furono tutti accusati di avere firmato una dichiarazione segreta con la quale si sarebbero impegnati a commettere, una volta rientrati in Italia, atti terroristici contro i comunisti italiani. All’imputazione generale fecero seguito altre accuse formulate da agenti dell’NKVD... quali l’aver ucciso cittadini o partigiani sovietici durante l’avanzata, avere partecipato a saccheggi contro la popolazione civile, avere svolto propaganda fascista nei campi di prigionia, avere compilato elenchi di soldati deceduti durante la prigionia e avere organizzato scioperi della fame. Si trattava di accuse infondate basate sulle testimonianze di commilitoni convertiti ormai rimpatriati, di fuoriusciti comunisti che svolgevano la funzione di istruttori politici nei campi e di civili russi terrorizzati ed ammaestrati su quello che avrebbero dovuto riferire in aula. False accuse in processi farsa, esattamente come quelli che si celebravano in URSS dagli anni ’30 ai tempi delle “purghe staliniane”. Non esisteva alcuna possibilità di difendersi con avvocati di fiducia, interpreti, testimoni a discarico o rappresentanti dell’Ambasciata italiana; veniva fornito solo un avvocato d’ufficio che in URSS aveva il compito di cooperare con la magistratura “alla ricerca della verità” e non di difendere l’imputato. In questa situazione è facile comprendere come questi “sepolti vivi” furono trattenuti nei lager sovietici per molto tempo, in alcuni casi fino al 1954: ben nove anni dopo la fine della guerra. Ancora una volta, le parole del maggiore Massa ci aiutano a capire come venivano celebrati i processi: “I processi in Russia si svolgono al contrario che da noi. Prima si stabilisce la condanna, poi si definiscono i reati, poi si cercano i testimoni e finalmente si chiamano gli imputati...”.

 

Un accenno doveroso a un’altra pagina di storia sconosciuta ai più: il processo D’Onofrio. Potrebbe sintetizzarlo in poche righe?

Posso sintetizzarlo con le stesse parole che ho scritto nel mio libro. Il processo D’Onofrio può essere considerato la trasposizione in chiave processuale di quella che era stata la tragica prigionia all’interno dei lager sovietici e la dialettica politica che in essi si respirava.

 

Infine, cosa potrebbe ancora emergere sui nostri prigionieri nell'ex Unione Sovietica?

Se venissero aperti tutti gli archivi dell’NKVD e si potesse accedere ai documenti ancora secretati potrebbero sicuramente uscire novità molto importanti.

 


 

Leggi anche la recensione del libro di Luca Vaglica.

 


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