di Patrizia Marchesini

Antonio Careddu – classe 1919, nato a Tempio Pausania (SS) e cresciuto nella frazione di Enas – fu al Fronte Russo con la Divisione Cosseria, 89° Reggimento, II Battaglione, 6ª Compagnia. Apparteneva a una squadra fucilieri e, per i combattimenti del dicembre 1942, gli venne conferita sul campo la Medaglia d' Argento al Valor Militare. 1

 

Bologna, 4 febbraio 2013

 

Antonio Careddu - M.A.V.M.

Lei partì per il servizio militare nel 1940, assegnato all' 89° Reggimento della Divisione Cosseria. C'è qualche episodio che rammenta in modo particolare?

Avevo fatto domanda per accedere al corso sottufficiali e a tale scopo ero stato sottoposto a una visita medica specifica al Distretto Militare di Sassari. Una volta ricevuta la cartolina precetto, però, mi destinarono in fanteria, a Ventimiglia, per tutta una serie di procedure burocratiche dell'epoca. Ho sempre avuto il rammarico di avere saltato quel corso. Diciamo pure che ci rimasi molto male, perché ci tenevo. Avevo alle spalle tre anni di addestramento pre-militare, sapevo marciare e maneggiare il fucile. Arrivai all'89° quando gli altri avevano già fatto il C.A.R. ed erano in procinto di prestare giuramento.

 

Il 10 giugno 1940 l'Italia entrò in guerra. Cosa accadde?

Come ho detto, l'89° Reggimento era di stanza a Ventimiglia e tutti i mesi, a turno, un battaglione si schierava lungo il confine; quel giugno toccò proprio al mio II Battaglione. Il mio plotone, in particolare, era stato destinato a essere plotone d'assalto in posto di sbarramento. Ci consegnarono sette bombe a mano e la maschera antigas. Il Reggimento aveva come motto 89, non chiedo dove: e infatti il 9 giugno partimmo senza sapere bene cosa ci aspettava. Arrivammo a Grimaldi, a ovest di Ventimiglia, proprio sul confine italo-francese. Allo scoppio della guerra ero quindi in prima linea, come mitragliere tiratore, con cinquanta giorni di servizio. In precedenza ci avevano fatto fare delle prove: bisognava avere mani da fata, con il fucile mitragliatore. Modestia a parte, me la cavavo bene in tal senso, perfino quando – come bersaglio – utilizzavano un unico bossolo. Comunque, tornando allo scoppio della guerra, sono stato fortunato. Il plotone d'assalto, infatti, rimase sempre nella stessa posizione, senza combattere. Meglio così... tutto era avvenuto all'improvviso e il nostro plotone d'assalto comprendeva - pensi - solo quattro uomini: capo arma, porta arma tiratore e due fucilieri, cioè l'organico minimo previsto per il gruppo tiro. Certo, l'artiglieria e l'aviazione francesi ci bombardavano tutti i giorni, in alcuni casi ce la vedemmo brutta... però – grazie a Dio – non successe niente. Il resto dell'89° invece passò il confine e fu coinvolto in combattimenti, subendo alcune perdite. Dopo la firma dell'armistizio varcammo il confine anche noi del plotone d'assalto, alla ricerca di eventuali feriti o caduti. Incontrammo un reparto della Croce Rossa Francese. Ci strinsero la mano senza animosità... perché noi soldati in fondo non eravamo responsabili di quanto era accaduto.

 

Fino alla partenza per la Campagna di Russia rimase sempre a Ventimiglia?

Sì. Dopo la cessazione delle ostilità con la Francia rientrammo in caserma. Facemmo un campo a Ceriana, un paesino sopra Sanremo, in mezzo ai monti. Più che un campo si trattò di una specie di premio. Fu una pacchia. Il mese più bello passato sotto le armi. Ai primi di luglio 1942 venne l'ordine di partire per la Russia.

 

Il viaggio verso il Fronte Orientale - se le mie informazioni sono giuste - durò per lei e i suoi commilitoni due settimane.

Fu un viaggio in prima classe [il tono è ironico, n.d.r.]; come saprà noi della truppa viaggiavamo nei carri merci. Per terra un po' di paglia e una coperta sopra... per fortuna in quel periodo era caldo. Ricordo che la prima sosta fu a Trento. I trentini ci riempirono la tradotta di casse di mele. Se non sbaglio la meta finale fu Gorlovka. Una volta scesi dal treno, cominciarono le marce per raggiungere il fronte.

Ogni giorno si percorrevano circa trenta chilometri, con tutto il materiale sulle spalle. Un caldo che fulminava. Sembrava una seconda Africa. Vedevamo i miraggi... sarà stata l'afa, oppure la stanchezza. C'erano queste collinette, sempre uguali. Non finivano mai. Il rancio fu sempre scarso. Molti "si arrangiavano" con le risorse locali. E in un'unica occasione fui sul punto di farlo anch'io: volevo prendere delle patate da un campo, ma arrivò un ragazzo, tutto agitato. Poi tornò indietro, e sopraggiunse un vecchietto, con un bastone, probabilmente il nonno del ragazzo. Sembrava un leone. Gli feci segno di fermarsi, lo minacciai con il fucile, ma certo non gli avrei mai sparato. Poi dissi ai miei commilitoni: "Ragazzi, il vecchio ha ragione. In questo campo c'è tutto il suo lavoro. Andiamo via." Altri però non si facevano scrupolo e, se trovavano qualcosa, lo prendevano. Avevamo fame. Ci davano scatolette di carne, che da allora ho sempre odiato.

Insomma, le giornate scorrevano tra sete, fame e stanchezza.

Marciavamo con la divisa estiva, in tela; quella invernale, di lana, era nello zaino.

 

Problemi con i partigiani sovietici?

No, siamo stati fortunati. Davanti a noi sentivamo però il rombo dei cannoni. I Russi si stavano ritirando.

 

Giungeste a Vorošilovgrad.

Arrivammo alla periferia di quella città dopo una tappa di cinquanta chilometri. Era tardi. Allestimmo - come il solito - le tende per dormire. Alla mia compagnia, la 6ª, spettò il compito di vigilare. Io ero caporale e spesso mi toccava la mansione di capoposto. In pratica dovevo sorvegliare le sentinelle – posizionate lungo il perimetro del nostro accampamento – affinché non si addormentassero. Anche quella sera il capoposto ero io. Rimanere svegli fu una fatica immensa. Il giorno successivo noi saremmo dovuti smontare e la 7ª Compagnia avrebbe dovuto sostituirci in tale compito di guardia, ma si rifiutò.

 

Per quale motivo?

Non lo so. Il capitano della mia Compagnia, inoltre, non si impose affinché gli ordini venissero rispettati. Io ero distrutto: dopo la marcia di cinquanta chilometri e la notte in piedi, avevo un bisogno estremo di riposare. Per fortuna arrivò il tenente colonnello che comandava il nostro battaglione. Era un sardo, un duro di quelli di una volta. Chiamò il capitano della 7ª Compagnia e lo mise sull'attenti come un salame: "Ti do cinque minuti per preparare la guardia." Il suo intervento fu provvidenziale. Non sarei riuscito a rimanere sveglio ancora a lungo.

  

Nei giorni che occorsero per raggiungere la linea, che idea si fece dei suoi ufficiali? Erano competenti, e preparati per un conflitto in un territorio così difficile? Erano attenti a voi soldati, oppure manifestavano un certo distacco?

Premetto che a Ventimiglia – nel nostro battaglione – c'era una disciplina molto rigida. Gli ufficiali? Alcuni erano bravi, altri meno, altri ancora non valevano niente. Un mese prima di partire per il Fronte Russo avevano assegnato al nostro plotone un sottotenente, o un tenente... ora non ricordo. Un entusiasta. A me però – che ero ignorante, ma in grado di valutare le persone con una certa accuratezza – non piaceva. Quando rivolgeva la parola a qualcuno, guardava sempre a terra, e non gli occhi del suo interlocutore. È il comportamento tipico dei falsi. Non mi sbagliavo. Una volta in Russia il nostro tenente si trasformò in una bestia. Per manchevolezze insignificanti prendeva a calci i soldati, oppure faceva legare a un albero il colpevole, con i ferri ai polsi. Se lo fa a me pensavo – questo non torna mica a casa. Da quanto so, comunque, morì durante il ripiegamento. Me lo raccontò un amico.

 

Tornando alle vostre marce, passaste il fiume Donetz e arrivaste al Don il 14 agosto 1942.

Giungemmo al Don che era già buio. Gli ufficiali in testa alla colonna ci stavano portando in bocca ai Sovietici, ma per fortuna intervenne il tenente colonnello sardo. Era uno che sapeva il fatto suo, con molta esperienza. Come un leone, diede a quegli ufficiali una strigliata indimenticabile.

Sul Don ci sistemammo in posizioni occupate in precedenza dai Tedeschi. Ogni Compagnia era responsabile di oltre un chilometro di fronte. Troppo. Il problema, però, era che non avevamo armi adeguate. D'estate funzionavano bene, ma con il freddo... quanti problemi! Ogni pallottola che entrava nella canna del fucile mitragliatore doveva ricevere una goccia di olio, ma l'olio gelava e l'arma si inceppava spesso. Io, come poi le spiegherò, riuscii a risolvere l'inconveniente, ma gli altri dovettero sempre fare i conti con questa cosa.

Mi assegnarono un caposaldo pericoloso e difficile. Perché io – a differenza di alcuni commilitoni – avevo a cuore la situazione e non dormivo. Ci tenevo. Non solo alla mia pelle, ma anche a quella degli altri. Le scaramucce furono frequenti.

Per un periodo, eravamo a settembre, mi offrii - insieme a un ragazzo siciliano che stimavo molto, un porta arma tiratore - per un servizio di vedetta molto rischioso: il mio compagno e io ci scavammo un buco che distava sì e no cinquanta metri dalle mitragliatrici russe sull'altra riva. Dovevamo stare attenti che i Sovietici non tentassero qualche colpo di mano, attraversando il fiume e infiltrandosi in un canalone... lo stesso canalone che poi sfruttarono nel loro attacco del dicembre successivo. Mantenni questo compito di vedetta per circa un mese, poi rientrai al caposaldo.

 

Quanti eravate nel caposaldo?

In otto, ma in pratica rimanevamo spesso in due, perché gli altri andavano di pattuglia o a sistemare i reticolati. Di solito restavo con un porta arma tiratore che non valeva niente; un vero irresponsabile: non potevo rischiare di lasciarlo solo, perché si addormentava subito. Di giorno e di notte. L'unica volta che venne il mio capitano a fare un'ispezione, gli feci presente la cosa e chiesi che quel porta arma venisse sostituito con un altro, magari con quello siciliano con cui andavo d'accordo. "Non si può", fu la risposta. Mi propose addirittura di sparare a quel soldato, se avesse continuato a non fare il suo dovere. Pensi un po'!

Naturalmente non sparai a quel porta arma. Io ero orfano, ma lui una mamma e un papà li aveva, e pensai al loro dolore. Però fu durissima. Si può dire che per un mese non chiusi occhio. Una volta riuscii a farmi dare il cambio e andai nel rifugio interrato che si trovava un po' più indietro. Pregustavo un po' di riposo, senza dovermi preoccupare di nulla. Invece... non feci in tempo ad arrivare che uno dei soldati assegnati al caposaldo venne a chiamarmi: "Il tenente dice che devi venire su perché l'arma si è inceppata e non sappiamo come rimetterla in funzione." Pensi. Neanche il tenente. Io ormai avevo una dimestichezza tale con il fucile mitragliatore che sarei stato in grado di smontarlo e rimontarlo - con gli occhi bendati - in un minuto. Così tornai al caposaldo e vi rimasi fino a quando - in seguito - fui ferito. Un mese senza riposare, senza lavarmi, a parte un po' di neve in faccia... Anche il cibo fu sempre scarso.

 

E i viveri di conforto?

Macché. Ci sarebbe spettato un po' di cognac al giorno. Una sola volta passò un nostro tenente e ci distribuì un cucchiaio a testa. Loro avevano i bidoni pieni, e a noi nulla. Non voglio fare polemica, ora... sono passati tanti anni.

 

Da quanto ho letto, e ascoltato in prima persona da reduci del Corpo d'Armata Alpino, le cose in quei reparti funzionavano diversamente. C'era un rapporto molto più stretto, fra ufficiali alpini e truppa, fatto di rispetto e condivisione delle difficoltà.

Sono d'accordo. Esisteva un affiatamento speciale, anche perché in gran parte venivano reclutati nelle stesse zone. Loro mica facevano la fame come noi, in quanto gli ufficiali si preoccupavano dei loro alpini e, quando andavano ai magazzini a fare i prelievi, pretendevano quanto spettava ai singoli reparti. I nostri ufficiali, invece, se ne fregavano. Mussolini aveva detto che tutti avrebbero dovuto mangiare lo stesso rancio. Purtroppo, per quanto ho visto io, non fu affatto così. Da noi, poco dopo essere arrivati sul Don, avevano organizzato la mensa ufficiali e quella per i sottufficiali. Alla truppa toccavano gli scarti. Credo che questo stato di cose fosse da imputare a ufficiali di una certa importanza della nostra Divisione. Si disinteressavano di noi, non fecero – suppongo – i dovuti controlli. Quando arrivò l'inverno fu anche peggio. Era difficile, con così poche calorie, resistere al freddo.

Agli ufficiali, poverini [il tono è molto ironico, n.d.r.], diedero anche un mese di riposo, verso metà novembre... in prima linea non si vedevano mai, stavano sempre indietro, dormivano nelle isbe, con le donne.

 

Ricorda qualche episodio particolare?

In autunno arrivarono i complementi, ragazzi giovani e inesperti. La prima linea, per chi non c'era mai stato, era un po' un trauma. Quindi, arrivarono questi novellini proprio quando quelli del Genio ci avvertirono che avrebbero posato delle mine davanti alle nostre posizioni. Ci pregarono, ovviamente, di non sparare e di lasciarli lavorare, avvisandoci che qualche scoppio sarebbe stato probabile. Era una notte di luna e misero di sentinella alcuni di questi ragazzi dei complementi che, sentendo rumori sospetti e i botti di quelli del Genio, scapparono a gambe levate: "I Russi, i Russi!". Arrivò il tenente Bianchi della 7ª Compagnia e mi ordinò subito di sparare. Io gli spiegai cosa fosse successo e aggiunsi che – obbedendo all'ordine (e visto che la mia mira era buona) – avrei colpito i nostri soldati del Genio, non certo i Russi... che non avevano attaccato, né passato il fiume. Bianchi mi voleva un gran bene e mi stimava, si fidò del mio giudizio e ritirò il suo ordine, per fortuna.

 

Come sappiamo – e come lei stesso ha accennato in precedenza – la linea italiana era organizzata in capisaldi, con rifugi interrati. Ci fa una descrizione? Alcuni reduci del Corpo d'Armata Alpino me ne hanno parlato come di ricoveri abbastanza confortevoli.

La postazione della nostra arma distava dal caposaldo vero e proprio un centinaio di metri. Avevamo dei camminamenti coperti. La postazione era, come può immaginare, molto spartana. Mangiavamo sempre in piedi, come i cavalli. I nostri rifugi non erano provvisti di brandine, bensì di semplici tavolacci, ma – come le ho spiegato – io non ebbi mai la fortuna di dormirvi. Altre sistemazioni non ne vidi mai e non posso fare confronti.

 

Giunse l'11 dicembre 1942, ed ebbe inizio quella che viene ufficialmente chiamata Seconda Battaglia Difensiva del Don.

Arrivarono le prime cannonate. Soprattutto la katiuscia faceva strage. La mattina successiva i Sovietici ricominciarono e fu davvero un inferno. Le loro truppe cercavano di attraversare il fiume ghiacciato. Venivano avanti ammucchiate, come le pecore. Io sparavo, sparavo... convinto di non avere niente da perdere, tanto ci avrei lasciato le penne di sicuro. Non pensavo certo alle medaglie. Badavo a sparare e basta. Il mio fucile mitragliatore, quel 12 dicembre 1942, fu l'unico che non s'inceppò e non smise mai di fare fuoco. Era ancora settembre quando, in un'isba, avevo trovato un barattolo pieno di un olio strano. Avevo vuotato la scatola-serbatoio dell'arma per riempirla di questo lubrificante. Non ho mai capito che sostanza fosse di preciso, ma la mia intuizione fu giusta, perché il mio fucile mitragliatore non ebbe mai problemi.

Alla fine, siccome cominciava a far buio e di perdite ne avevano subite tante, i Russi si ritirarono. Nel corso della giornata ero stato ferito due volte al braccio e questa fu per me la salvezza: mi portarono in un rifugio e - da lì - sempre più indietro, nelle retrovie. Perciò non ero più in prima linea nei giorni seguenti, quando i Sovietici rinnovarono i loro attacchi e riuscirono poi a sfondare.

Come stavo dicendo, mi accompagnarono a quel rifugio; c'era un tenente con una borraccia piena di caffè: lo bevvi tutto, perché avevo perso moltissimo sangue e non avevo mangiato nulla durante il giorno. Le due pallottole che mi avevano colpito erano esplosive ed ero certo che avrei perso il braccio. Rimasi lì fino al pomeriggio del 13 dicembre. Poi quattro portaferiti mi trasportarono in barella all'infermeria di presidio: era piena di gente, ma la maggior parte dei presenti aveva delle ferite non gravi. Quando arrivai, mi accolse uno scroscio di applausi, e molti degli ufficiali si congratularono con me... tutti sapevano cos'era successo il giorno prima. "Grazie," risposi "ma ho fatto solo il mio dovere." A dire il vero ero più di là che di qua, debilitato dalla perdita di sangue. Fui caricato su una slitta trainata da un cavallo, insieme ad altri due feriti. Arrivammo all'ospedale da campo - che distava circa sette chilometri - in due, perché uno non sopravvisse al trasporto. Il giorno successivo, altro ospedale ancora più indietro. Dopo ventiquattro ore mi trasferirono a Kantemirovka.

 

Per questi trasporti furono mai utilizzate delle ambulanze?

No, non ne vidi mai. C'erano camion con sedili e lunghe panche. Chi urlava da una parte, chi dall'altra, perché le strade russe erano sempre molto sconnesse e, in quel periodo, ghiacciate... gli scossoni erano frequenti. Ripartii dall'ospedale di Kantemirovka il 18 dicembre, diretto a Vorošilovgrad. Appena in tempo, in quanto la mattina del 19 dicembre a Kantemirovka arrivarono i Russi, e successe quel che sappiamo. Da Vorošilovgrad, altro trasferimento in un piccolo ospedale a Nova Gorlovka, dove trattarono molto bene noi feriti. Il vitto era abbondante; ricordo, però, che ero tormentato dalla sete. In seguito, venni trasferito all'Ospedale n. 1 di Stalino e da lì, la vigilia di Natale, io e altri feriti partimmo per Dnepropetrovsk, in treno, sui soliti vagoni merci. Tutta la notte in viaggio, nessun medico e nessuna stufa. Un freddo terribile.

A Dnepropetrovsk ci rasarono, disinfettarono e ci fecero fare il bagno. Ricordo un ragazzo di Cagliari, colpito a una guancia... si era trovato la pallottola in bocca, senza conseguenze gravi, per fortuna. Il proiettile non aveva leso nulla. Lui mi aiutava quando dovevo alzarmi, mi accompagnava a fare le medicazioni, perché io sembravo avere perso tutte le forze.

Pochi giorni dopo l'arrivo a Dnepropetrovsk finalmente un capitano medico bolognese mi ingessò e, per la prima volta, sperai che non avrei perso il braccio.

 

Antonio Careddu Osp Putti Aprile 1943

 

Rimasi ingessato sette mesi con questa ingessatura particolare, poi per altri due mesi portai un gesso "normale".

Il 17 gennaio ci caricarono sul treno ospedale diretto in Italia.

 

Come fu il viaggio di rimpatrio?

Un paradiso. Carrozze riscaldate, ci davano persino la frutta... le arance, che non ricordavo più come fossero fatte. Eravamo ben assistiti: personale medico, crocerossine, e anche un cappellano militare.

Il 24 gennaio arrivammo in Italia. Alle varie stazioni le donne fasciste ci portavano doni. Giungemmo a Rimini. Passò la commissione medica per controllare le cartelle cliniche e iniziarono a scaricare i feriti. Sulla mia carrozza rimanemmo in tre. "Come mai non mi scaricano?", chiesi. "Ah. I tuoi documenti sono sbagliati e ti rimandano in Russia.", mi rispose qualcuno, prendendomi in giro. "In Russia ci vai poi tu!"

In realtà chi aveva delle fratture gravi doveva tornare a Bologna, destinato all'Ospedale Putti, aperto dal professor Vittorio Putti, che era stato direttore del Rizzoli. In pratica l'Ospedale Putti era riservato a problemi ortopedici e traumatologici molto seri. Tutti i medici caporeparto erano ufficiali richiamati sotto le armi. Per esempio, il professor Scaglietti – che poi mi operò – era un tenente colonnello di Marina, anche se magari aveva fatto un corso al... Laghetto dei Castori, perché non credo che un luminare come lui, che aveva studiato anche in America, avesse avuto modo e tempo per dedicarsi alla carriera militare. Averlo incontrato fu la mia fortuna. Pensi che, quando passava la commissione medica, i dottori si fermavano a parlottare preoccupati davanti al mio letto. Perché ero messo male. Non potevano operarmi subito in quanto il mio fisico era troppo indebolito. Così mi spostarono in una specie di convalescenziario. Lì c'erano anche alcuni reduci del Fronte Russo, ma non conoscevo nessuno di loro.

Nel convalescenziario eravamo assistiti bene, c'erano delle crocerossine molto premurose. Poi finalmente mi operarono al Putti e mi rifecero il gesso. Quando – dopo nove mesi – me lo tolsero, fu una tragedia. Ero tutto anchilosato, dovevo andare quotidianamente in sala ginnastica a fare degli esercizi.

Un giorno arrivò il professor Scaglietti: "Fammi un po' vedere." E, senza pensarci due volte, trac-trac-trac... mi girò il braccio, come secondo lui era necessario fare. Sentii un male terribile, tanto che piansi tutto il giorno. Era un grande medico ma, a essere sinceri, sotto il profilo umano era tremendo. Brusco, quasi violento, a volte. Devo però ringraziare lui se riuscii a recuperare la funzionalità dell'arto.

Arrivò l'8 settembre 1943. Quasi tutto il personale del Putti scappò. Io, tuttora ricoverato, cercai di aiutare le crocerossine nell'assistere gli altri pazienti. All'epoca c'erano circa 400 ricoverati all'Ospedale Putti... da ogni fronte di guerra. Arrivavano anche soldati da altre città, in quanto era un centro d'eccellenza.

All'inizio mi limitai a fare delle tricotomie2 quando i pazienti dovevano essere operati. Poi mi chiesero se me la sentivo di rifinire un gesso. Vista la mia buona volontà - e una certa predisposizione - mi proposero di fare l'infermiere e mi diedero un camice. Dopo quei primi giorni arrivò altro personale. A dire il vero non era personale qualificato: si trattava - in massima parte - di gente scappata dalle caserme in occasione dell'8 settembre, gente che si era imbucata lì e che, in effetti, in quel modo evitò la deportazione da parte dei Tedeschi.

A proposito di Tedeschi: anche loro furono ricoverati al Putti. Arrivarono con la solita prepotenza, ma Scaglietti era un osso duro. Oltre all'inglese conosceva anche il tedesco. Riuscì a ottenere dal comandante tedesco della piazza di Bologna ciò che voleva.

A noi del personale era stato fornito un bracciale con il simbolo della Croce Rossa per permetterci di circolare liberamente in città, nonché una tessera in duplice lingua - italiana e tedesca - che attestava la nostra appartenenza al personale sanitario. Ma fu un periodo molto difficile: alle porte sulla circonvallazione di Bologna la gendarmeria tedesca effettuava controlli severi. Se giravi in borghese potevano prenderti i Tedeschi, se giravi in divisa potevano prenderti i partigiani oppure le brigate nere.

A me, comunque, quel mestiere piaceva. Andai avanti sino alla fine della guerra facendo l'infermiere senza – in realtà – esserlo. Nell'ottobre 1945 io e quelli come me frequentammo il primo corso, di nove mesi. A giugno'46 facemmo gli esami. Gli aspiranti infermieri arrivarono da tutta l'Emilia Romagna. Eravamo più di 800. L'esame, in forma orale, per me andò bene.

Lavorai al Putti fino al 1950, anno in cui l'ospedale fu chiuso. In seguito fui assunto alla DKW, dove facevano le moto, per poi riprendere a fare l'infermiere presso l'Ufficio di Igiene del Comune di Bologna. Mi occupavo delle vaccinazioni ai bambini e, vista la sua età, è probabile che abbia fatto una punturina anche a lei (ride, n.d.r.).

 

So che è tornato in Russia, nel maggio 1993. C'è qualcosa in particolare che vorrebbe raccontarmi?

Sono tornato in Russia con mia moglie, mio figlio e mio cognato. Dormimmo a Rossoš', ma riuscii a visitare Novo Kalitva e Kantemirovka. Fui molto contento perché trovai un mondo sereno, un'atmosfera di pace. La gioia più grande – durante quel viaggio per me così significativo – fu avere con me mia moglie e mio figlio. Novo Kalitva era molto diversa da come la ricordavo: nel 1993 c'erano l'energia elettrica e l'acqua potabile. Le vecchie isbe erano sparite. Durante la guerra il villaggio era davvero uno squallore. Riconobbi, anche se da lontano, il punto in cui si trovava pressappoco la mia postazione. Ora lì sorgono dei capannoni.

A Kantemirovka discussi un po' con il professor Morozov: mi mostrò il luogo dove, secondo lui, sorgeva l'ospedale in cui ero stato ricoverato. Ero sicuro che il luogo non fosse quello giusto, ma non mi sembrò opportuno contraddire Morozov.

Più tardi, durante una sosta del pullman, ebbi l'occasione di parlare con alcuni anziani russi. Avevo notato, infatti, un edificio che mi pareva familiare. Quei Russi mi confermarono che in quella costruzione aveva avuto sede l'ospedale italiano. Pensi, avevamo parcheggiato proprio davanti.

Sempre a Kantemirovka sostammo davanti a un monumento con un carro armato, eretto dai Sovietici in ricordo dei loro caduti. Intorno a noi si radunò un gruppetto di persone del luogo, curiose di sapere da dove venissimo.

Saputo che eravamo Italiani – grazie alla nostra interprete – un ragazzo parlò a nome di tutti, facendoci un'accoglienza molto calorosa: eravamo i primi turisti a raggiungere la loro città.

Ci recammo anche a Quota Pisello, sulla cui altura si trova una sorta di sacrario in commemorazione dei caduti sovietici. Un lungo elenco di nomi. Notai, però, la foto di un ragazzo combattente... giovanissimo, avrà avuto quindici anni. A quel punto mi venne un nodo alla gola... speravo di non essere stato io a ucciderlo, anche se – ripensando ai giorni della battaglia – è improbabile, in quanto essendo stato ferito il 12 dicembre, in pratica abbandonai la linea subito.

 

I coniugi Careddu a Cargnacco - Settembre 2011

 


 

1 Ecco la motivazione: "[...] durante violento attacco nemico con l'esempio incitava i compagni di squadra e contribuiva col mirato tiro della sua arma al mantenimento di una difficile posizione. Ferito al braccio, ricusava ogni cura e continuava a far fuoco. Ferito una seconda volta, a malgrado dei reiterati inviti del proprio comandante, non abbandonava l'arma e non desisteva dal far fuoco, se non dopo che il nemico era stato ricacciato sulle sue posizioni. Novo Kalitva, Russia, 16 dicembre 1942"

2 La tricotomia è la procedura preoperatoria che consiste nella rimozione di peli o capelli presenti nella zona cutanea da sottoporre a intervento chirurgico.

 

 

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