Recensione di Patrizia Marchesini

 

 

La guerra al Fronte Russo copertinaLa figura del generale Giovanni Messe è ben nota a chi si occupa di Campagna di Russia. Comandante del C.S.I.R. dal 16 luglio 1941,[1] e del XXXV Corpo d’Armata dal 9 luglio 1942,[2] rientrò in Patria il 1° novembre di quello stesso anno.

 

Messe focalizza la narrazione su alcuni aspetti in particolare.

In primo luogo desidera rendere omaggio ai soldati italiani. Uomini calati in uno scenario difficilissimo, i cui mezzi a disposizione erano inadeguati alle necessità imposte dal clima, dall’ambiente e dal tipo di conflitto.

Pur senza il desiderio di esaltare l’idea di guerra o di alimentare spiriti nazionalistici, dalle pagine traspare un grande rispetto per le truppe che seppero dimostrare indiscutibili doti di abnegazione, e anche di bravura.

 

Un tema aggiuntivo – ampiamente sviluppato – è quello delle problematicità enormi  e molteplici affrontate dai reparti.

Per esempio, l’equivoco sorto con l’alleato germanico in merito alla definizione di autotrasportabili, riferita alle nostre Unità, fece sì che i Tedeschi reclamassero – soprattutto nel primo periodo di permanenza in cui il C.S.I.R. venne a trovarsi al fronte – prestazioni che differivano non poco dalle reali possibilità di movimento del nostro Corpo d’Armata.

I nostri automezzi erano in numero insufficiente a garantire il trasporto simultaneo di tutti i reparti. Da questo conseguì che molti di essi furono costretti a procedere a piedi.

Anche la situazione logistica presentava inciampi notevoli, con le truppe proiettate avanti e i rifornimenti che spesso stentavano a proseguire (bastava un po’ di pioggia a rendere impraticabili le piste in terra battuta) e rimanevano nelle lontane retrovie.

 

Tali problemi – Messe non manca di sottolinearlo – erano legati ai rapporti con l’alleato tedesco, rapporti che non furono mai semplici: la convenzione stipulata sulla carta da una commissione italo-germanica il 27 giugno 1941 in materia di rifornimenti diretti (per la parte che l’alleato era tenuto a fornirci) e indiretti (si pensi al controllo tedesco del movimento dei convogli ferroviari per il trasporto di generi alimentari o altri materiali e delle necessarie dotazioni) trovò sempre una realizzazione parziale. 

 

Nel mettere in risalto difficoltà del genere, l’autore illustra in dettaglio le operazioni in cui venne coinvolto il C.S.I.R., evidenziando – per quanto Messe ebbe modo di osservare – il tipo di occupazione (improntata sempre a un rigore eccessivo, che spesso sfociava in crudeltà e ingiustizie palesi) che i reparti del Reich adottarono, e lo sfruttamento di tutte le risorse che il territorio via via conquistato poteva offrire: vi era sostanziale difformità con l’atteggiamento delle nostre truppe nei confronti della popolazione locale (prima ucraina e poi russa) e dei prigionieri di guerra.

 

Nel racconto è sempre sottesa un’intenzione difensiva, che sembra volere rimarcare – grazie a stralci di relazioni, a documenti e a comunicati vari – come l’autore avesse puntato il dito più volte sulle carenze del C.S.I.R. con gli alti Comandi, in Italia.

Il 20 maggio 1942, il generale Messe – profittando di un momento di stasi al fronte – rientrò addirittura in Patria, cercando di convincere Mussolini sull’inopportunità di inviare al Fronte Russo i reparti che avrebbero trasformato il nostro contingente in un’Armata.[3]

Il suo tentativo, come noto, risultò vano. Fu in tale occasione che il duce pronunciò la frase, divenuta famosa, sul peso che i 200.000 dell’Arm.I.R. avrebbero avuto – al tavolo della pace – rispetto ai 60.000 del C.S.I.R..

 

Durante la Prima Battaglia Difensiva del Don (20 agosto – 1° settembre 1942), a seguito dell’ingerenza tedesca[4] e dei contrasti sorti con il comandante dell’8ª Armata italiana, in Messe maturò – in modo graduale ma irrevocabile – la decisione di farsi sostituire.

Al di là di quanto accaduto durante la suddetta Prima Battaglia Difensiva del Don, Messe riferisce un atteggiamento freddo e diffidente da parte del generale Italo Gariboldi, evidenziatosi fin dall’inizio, cioè da quando il Comando d’Armata era giunto al Fronte Russo.

 

Su questo terreno andarono a impiantarsi questioni ulteriori in materia di riordinamento e rimpatrio delle Unità, di avvicendamento e di organizzazione logistica, in previsione di una nuova campagna invernale.

Messe si esprime con una certa cautela, in proposito.

Addentrandosi nell’argomento sembra quasi volersi giustificare per avere infine scelto di chiedere di essere rimpiazzato... abbandonando, per certi versi, gli uomini di cui aveva il comando (e di cui si sentiva, con ogni probabilità, responsabile).

La sua domanda fu accolta e, come si è detto all’inizio, il 1° novembre 1942 il generale Messe lasciò il XXXV Corpo d’Armata, sostituito proprio da quel generale Zingales di cui aveva preso il posto nel luglio 1941.

È percepibile, per come andarono poi le cose, un disagio intimo nel ripensare al distacco dai suoi uomini, cui indirizzò un messaggio di commiato davvero sentito, seppure formulato nel classico linguaggio militare.

 

Oltre a essere un testo imprescindibile per chi desidera approfondire le vicende del C.S.I.R., si richiama l’attenzione anche sull’appendice conclusiva del volume, corredata da documenti e testimonianze, e relativa ai prigionieri italiani caduti in mano sovietica, al trattamento cui furono soggetti e al rimpatrio dei pochissimi sopravvissuti.

 

 

Giovanni Messe, La guerra al Fronte Russo, Ugo Mursia Editore, Milano, 2005

 
 
Leggi anche un brano del libro.
 


[1] In sostituzione del generale Francesco Zingales che, ammalatosi poco dopo avere lasciato l’Italia, il 13 luglio era stato ricoverato in una clinica di Vienna.

[2] Il 9 luglio 1942 il comando delle nostre truppe al Fronte Orientale passò all’8ª Armata italiana, agli ordini del generale Italo Gariboldi. L’ex Corpo di Spedizione Italiano in Russia (C.S.I.R.) assunse la denominazione di XXXV Corpo d’Armata.

[3] Della conferma di tale progetto Messe venne a conoscenza solo a fine aprile 1942. Sino ad allora era stato tenuto all’oscuro, senza essere interpellato in proposito. Si veda, al riguardo La guerra al Fronte Russo, Giovanni Messe, pagine 210 e seguenti.

[4] “Erano da poco in atto le mie ultime contromisure per far fronte alla difficile situazione creatasi, quando all’improvviso, durante la notte del 25 [agosto], giungeva per il tramite del comando 8ª Armata la seguente comunicazione del comando gruppo armate B: «1°) Nessuno deve arretrare dalle posizioni attuali: chiunque lo ordini è passibile di gravi sanzioni. 2°) Il terreno compreso tra il limite destro dell’8ª armata italiana e la strada di Bokowskaja-Jelanskoje, con le truppe in esso dislocate, passa alle dipendenze del XVII corpo tedesco. Riserva di precisazione.» Alle 8.30 del 26, sempre per il tramite del comando 8ª armata, perveniva un nuovo messaggio che completava e chiariva il precedente ordine: «Con decorrenza immediata, passano alle dipendenze del XVII corpo tutti i reparti dislocati tra l’attuale limite di settore tra 8ª et 6ª armata [quest’ultima era l’Armata di Paulus] et strada Bokowskaja-Jelanskoje. Tali reparti sono: divisione Sforzesca, divisione Celere, nonché truppe d’armata italiane et truppe tedesche (179° reggimento di fanteria). Compito del XVII corpo è impedire, come da ordini del comando 6ª armata, uno sfondamento nemico in direzione Perelasowski-Bokowskaja et di fermare a tutti i costi i movimenti di ripiegamento della divisione Sforzesca.» Era evidente, in questo inatteso intervento del comando superiore tedesco, l’intendimento di togliere di mano ai generali italiani la direzione della battaglie difensiva, nell’orgogliosa quanto sciocca presunzione che bastassero il cipiglio e l’arte incomparabile di un generale tedesco a rimettere le cose a posto e soprattutto a «fermare» i ripiegamenti delle nostre divisioni.” Da La guerra al Fronte Russo, Giovanni Messe, pagine 259 e 261.

 

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