Memorie del Sergente Maggiore Enrico Montani.
1° Reggimento Pontieri,
IX Battaglione,
22ª Compagnia.
Reduce di Russia
Introduzione
La generazione dei giovani che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale non ha conosciuto le addomesticate esperienze dei giovani d'oggi: le gite scolastiche, i viaggi studio, gli interrail. Ben altri viaggi le furono riservati: verso i fronti di guerra dove avrebbe vissuto esperienze magari inziate con lo stesso entusiasmo di una gita turistica, ma che presto si sarebbero rivelate tragiche ed estreme.
Quando talvolta riemerge tra antichi documenti di famiglia un racconto di quei viaggi, ci scopriamo più vicini di quanto si possa immaginare a quella gioventù a cui tanto si è chiesto e che tanto ha saputo dare.
La famiglia Montani ci ha concesso il privilegio di conoscere il taccuino di viaggio del Sergente Maggiore Enrico. Vi si registrano giorno per giorno la cose notevoli, da quando per lui, ragazzo di 25 anni, la vita è divenuta 'come un romanzo', cioè da quando con il IX Battaglione Pontieri è andato alla guerra, prima sul Fronte Occidentale, poi in Jugoslavia e infine in Russia.
Enrico aveva imparato le conoscenze di base nel breve corso delle scuole elementari, ma possedeva raffinate abilità pratiche conquistate alla scuola del padre pescatore e barcaiolo. Così nei Pontieri ha potuto raggiungere il grado di sergente maggiore. Nelle sue note gli interessa descrivere la quotidianità della vita, le persone incontrate, soprattutto le popolazioni locali, i paesaggi, il clima terribile e grandioso della steppa russa, la vita noiosa di routine, i combattimenti assordanti e sanguinosi e le soluzione estreme per la sopravvivenza in prima linea. Egli annota con cura i percorsi di viaggio, i paesi, gli alloggi, gli ospedali da campo. Non servono artifici letterari per calarci nella situazione di chi annota, bastano i fatti ed un semplice 'giornata nera', accanto al racconto. Questo libretto è avvincente proprio 'come un romanzo', ma è anche un prezioso documento per ricostruire gli avvenimenti dell’inverno 1942-43, di cui, a causa delle tragiche condizioni in cui avvenne la ritirata, non rimangono che rare testimonianze, frammentarie ed incomplete.
Luisa Segato
Note biografiche
Io dovrò essere tra loro
La campagna jugoslava è per me terminata, e con un permesso di 48 ore faccio ritorno in Italia ad abbracciare i miei cari, la fidanzata, i nipotini. Ho la sensazione che sia l'ultimo abbraccio, la Russia attende i soldati italiani.
IO DOVRÒ ESSERE TRA LORO!
Due giorni di duro lavoro servono per caricare materiali e automezzi sui pianali dei carri ferroviari; alla fine autorità politiche di Trieste con a capo il Federale in pompa magna vengono a farci auguri per la nostra sorte offrendo pacchi dono contenenti indumenti e viveri di conforto. Nel mio pacco trovo anche l'indirizzo di chi l'ha confezionato: una graziosa ragazza di 16 anni che sarà madrina di guerra per diversi mesi.
Il 28 luglio ha inizio il mio viaggio verso il fronte russo. Il IX Battaglione Pontieri di Verona, presso il quale sono in forza dall'anno della sua formazione (1940), si muove da Villa Opicina; attraversa l'Austria, Ungheria e fa sosta a Budapest.
Il tempo di dare uno sguardo al meraviglioso ponte sul Danubio, alle acque del fiume, alle sue rive, ai suoi palazzi che lo costeggiano e, con la popolazione che acclamava a gran voce «Italien italiane», offrendo fiori e generi di ristoro, si riparte. Si giunge in Romania e dopo cinque giorni di faticoso viaggio il treno scarica soldati, automezzi e materiali alla stazione di Borsa.
Piove e fa freddo, il ricordo di casa rende ancora più triste la ripresa del cammino che prosegue verso il fronte in autocolonna. I Carpazi, avvolti nel buio della notte e nella fitta nebbia, fanno da primo duro ostacolo al nostro cammino, ma il giorno ci regala un tempo migliore e, nell'ammirare i paesaggi rumeni e i costumi strani della popolazione, si giunge a Bucecea dove si fa una sosta di tre giorni.
Stiamo attraversando una zona collinare ricoperta di boschi: ad una curva mi si presenta uno spettacolo terrificante: un'autocolonna russa composta di oltre duecento automezzi leggeri, sorpresa da Stukas, era stata completamente distrutta. L'azione degli aerei era stata così rapida che nessun autista aveva fatto a tempo a mettere piede a terra, finendo così carbonizzato insieme all'automezzo che guidava. Lo spettacolo mi fa inorridire, cerco di non pensare al futuro, il morale è già scosso abbastanza.
Il fuoco rischiarava la notte serena. Trovammo il luogo adatto per l'attacco del ponte e tornammo all'accampamento nel bosco. Così ebbi il battesimo del fuoco in terra russa. Sulla sponda opposta era l'inferno!
Verso la mezzanotte alcune bombe cadono nelle vicinanze e una dozzina di Pontieri rimangono feriti.
Comando la squadra barcaioli e, con l'aiuto di Contardi, mi prestai ai primi soccorsi. Un soldato ferito gravemente morirà il giorno seguente. Dopo circa due ore di estenuanti fatiche, i primi automezzi transitano sul ponte verso la sponda sinistra.
Si fa ritorno all'accampamento per riposare.
Di giorno occorre recuperare il materiale ancora efficiente portato via dalla corrente e, durante la notte, riparare la parte distrutta.
Nel pomeriggio del 14 settembre, nell'ora in cui negli anni precedenti la guerra andavo a ballare, per la festa del paese, con il mio plotone mi muovo dal bosco dove siamo accampati per raggiungere il ponte in autocarro.
Giunto in periferia della città, apparecchi russi lasciano cadere il loro carico di bombe, alcune cadono su di un reparto di Pontieri; un morto e cinque feriti. Abbandoniamo il mezzo per ripararci alla meglio, inciampo e cado, guardo e vedo il piede di un mio soldato seppellito sotto delle macerie. Solo durante la notte fu possibile lavorare sul ponte; l'artiglieria russa non dava tregua. Durante il lavoro ci fu un ferito grave, tanti soldati morti da parte tedesca. Morti anche prigionieri e civili russi che una squadra di tedeschi trasportava a riva con un traghetto.
Quella notte con il compaesano Contardi bevemmo un'intera bottiglia di vodka.
Il giorno 23, durante una delle tante operazioni di recupero, con un plotone di uomini vengo preso di mira dall'artiglieria russa. Compreso il pericolo, pensai di raggiungere immediatamente la riva con il fuoribordo ordinando agli uomini di salire a bordo.
Pochi minuti dopo una granata esplose nello stesso punto in cui noi stavamo lavorando. Il Colonnello Montaretto, dal suo osservatorio, seguì i nostri movimenti; ebbi un encomio. Il ponte oltre che servire alle truppe italiane, era transitato da tedeschi, ungheresi, romeni, croati e prigionieri russi e civili.
Era uno spettacolo impressionante, ma di troppo breve durata per essere goduto. Ogni giorno era teatro di scene pietose. Alcuni cadevano in acqua e venivano travolti dalla corrente; salvarli era impresa disperata.
Con gli amici Dalla Piazza e Bertucco facciamo un giro: qualche locale, ma di poco conto, era aperto. La popolazione non sapeva di che nutrirsi, scarseggiavano i viveri e le medicine; comincia a manifestarsi la borsa nera. È già inverno, la temperatura precipita di molto sotto lo zero, nevica praticamente ogni giorno.
È impossibile vivere in tenda e troviamo riparo in una caserma russa. Hanno ricominciato a circolare anche i tram: saliamo. Ad una fermata una bella ragazza ci sorride, ci saluta; ci avviciniamo e, a gesti più che a parole, ci invita a casa sua.
Una bella casa, vive con i genitori e un fratello minore; ci offrono thè e miele con noci. Il padre faceva il dentista, lei studiava medicina all'università di Mosca. Nonostante avesse solo vent'anni era sposata. Il marito naturalmente era al fronte. Fummo invitati a tornare. Quando ci è consentito, torniamo a fare visita alla famiglia anche per sentire un po' di musica. I viveri scarseggiano, non hanno pane; i tedeschi distribuiscono pane ai civili muniti di carte annonarie rilasciate a chi prestava la propria opera per la ricostruzione della città.
Mi chiedono se mi è possibile procurare loro un po' di pane, naturalmente dietro pagamento. Il padre apre una cassa e, con stupore vedo che è piena di rubli. A fatica riesco a comprare alcune forme di pane. Alcuni giorni dopo il padre viene incarcerato e successivamente rilasciato; la stessa sorte subisce la madre. Andiamo alle carceri per sapere notizie: sono ebrei.
Dopo qualche giorno scompare la figlia; non l'ho più rivista. Il fratello mi disse che di notte era solita attraversare il fiume ghiacciato per tenere contatti con partigiani russi. Anche noi non tornammo più a ritrovare quella famiglia, avevamo paura di comprometterci. Ci dispiaceva soprattutto per la calda ospitalità che ci era stata data e per la musica che si ascoltava, così diversa da quella che da mesi rintronava nelle nostre orecchie.
Nevica. La strada, o meglio la pista, è impraticabile, spesso dobbiamo a fatica rimettere in carreggiata il nostro automezzo. Il percorso ci obbliga ad attraversare per una quarantina di chilometri la foresta nelle vicinanze di Pawlograd, nella quale si nascondevano formazioni di partigiani. Il Capitano Bonsi mi consigliò di attraversarla col buio. Arriviamo a destinazione a tarda sera. La solita disorganizzazione.
Troviamo riparo in un capannone senza porte né finestre. Il solito fusto fungeva da stufa, ma usciva più fumo che fuoco.
Da mangiare non c'era niente di caldo. Nevica, vento forte, solita glaciale temperatura. In questa situazione è consigliabile che l'autista si riposi nella cabina dell'automezzo con il motore in moto al minimo.
Non potevo immaginare che il Colonnello che comandava il presidio del paese potesse udire il motore in moto durante la notte. II mattino seguente fui convocato al Comando.
Durante l'interrogatorio con frasi di insubordinazione, risposi al Colonnello che dovevo percorrere con mezzi trainati oltre 150 km, con piste impraticabili e zone insidiate da partigiani. Spiegai che era mio desiderio arrivare non a notte inoltrata. Mi fece un sonoro rapporto.
Non nevica più; anche il freddo è meno intenso di ieri. Questo ci facilita il viaggio di ritorno. Mentre mi recavo dal Capitano Bonsi per riferire sull'accaduto, fui informato che due ore dopo la nostra partenza da Petropawlowka la cavalleria cosacca, infiltratasi nel paese, aveva causato morti e feriti. Lo stesso Colonnello aveva riportato ferite.
Un'altra notizia spiacevole: il Capitano Bonsi è stato ricoverato in ospedale per malattia; dovrà essere rimpatriato.
Siamo adibiti ai più svariati lavori di rifacimento. Nella notte del 18 marzo 1942, in aperta campagna presso Pawlograd, stiamo scaricando munizioni da un treno. Il freddo era insopportabile e chiesi un po' d'acqua calda della locomotiva al macchinista, un civile russo, volevo ristorarmi, non ce la facevo più.Verso l'alba mi svegliai e mi ritrovai in una casupola gremita di soldati tedeschi e di civili. Chiesi come e perché mi trovavo in quel locale. Il macchinista, accortosi che ero stato colpito da un principio di congelamento, mi fece portare al caldo.
Malgrado l'interessamento del nuovo Comandante del Battaglione, Maggiore Rinaldi, non fu possibile rimpatriare. La delusione più grande la provai quando vidi l'ultimo treno che andava in Italia.
Agosto 1942 - Olgowirog. Oltre Millerovo avevamo costruito un ponte a cavalietti su un torrente. Il giorno 25 viene data partenza immediata per la linea, non come pontieri, ma come aggregati al 79° Reggimento Fanteria, Divisione Pasubio. Il giorno seguente ci troviamo a Kalinski sul fiume Don. L'accoglienza non è affatto delle migliori: colpi di artiglieria, mortai, katiusce, mitraglie. Un apparecchio cade in fiamme. Feriti che urlano, civili che fuggono, case incendiate. È comprensibile il trauma che ognuno di noi subì in quel momento. Per ben tre giorni ci lasciarono senza rancio. Finalmente all'alba del quarto arrivò da mangiare: la razione era di tre giorni e per tre persone. II soldato Serena, mentre il Caporale Tirelli ed io ci trovavamo in postazione, si mangiò tutto quanto. Abbiamo i primi feriti.
Sembra ormai una cosa abituale. Sul calare della sera si sentono i russi a parlare e cantare; è sicuro che durante la notte non daranno tregua.
Nella notte del 5 ottobre, mentre sto per dare il cambio alla vedetta, una grossa pattuglia russa ci attacca sulla destra; si scatena un inferno, abbiamo alcuni feriti.
È sopraggiunto così il secondo inverno: ogni giorno che passa pesa sempre di più. Comincia a nevicare. I russi non concedono tregua, ogni notte abbiamo perdite. Anche il freddo miete le sue vittime. Le speranze di rimpatriare, di abbandonare quell'inferno, di non vedere più gli orrori di una guerra crudele, sfumano ogni giorno sempre di più. Alla fine di ottobre i bersaglieri ci danno il cambio. «Avvicendamento». Quante volte si è ripetuta questa parola. La Compagnia si riunisce a Padgoria, un paesino situato come tanti altri, in un'ansa del Don.
1 novembre - S. Messa. Il Capitano Barbetta comunica le perdite subite durante i conflitti degli ultimi due mesi; sono tante, troppe. Il Generale Tirelli, al termine della cerimonia, ci informa che saremo «avvicendati».
Trasferito a Prosciani, un agglomerato di case vicino alla strada per Kantemirowka con l'ausilio di civili, devo provvedere a tenere sgombra la strada dalla neve.
Dobbiamo costruirci un giaciglio, come al solito sottoterra, poiché non c'è altro modo di ripararci dal freddo. Durante il giorno si lavora sulle rive del Don in condizioni disagiate, mentre i russi ci tengono compagnia con la solita musica. Di notte i pidocchi non ci lasciano dormire. Gli Artiglieri sono avvicendati tra loro; ho trovato qualche piacentino e mando mie notizie a casa. Sono cinquanta giorni che non ricevo posta: qui siamo come fuori dal mondo.
Non avevo nessun ufficiale a cui rivolgermi; mi angustiava il pensiero di non aver notizie sulle precarie condizioni di salute di mia madre.
Amara è l'esperienza di avere già trascorso l'inverno precedente in Russia; oltretutto, devo tenere alto il morale a chi ha perso la speranza di ritornare in Patria.
A Kantemirowka trovai altri della mia Compagnia; i russi erano già in periferia con i carri armati e sulla cittadina arrivavano bombe da ogni parte.
Del Serg. Maggiore Graziani, del furiere Bertoli non seppi più nulla; con Tirelli e Contardi ci trovammo dopo diversi giorni.
Conoscendo la strada, vado verso Tscerkowo: è un caos, si salvi chi può, tutti cercano di uscire per non rimanere accerchiati.
Le strade sono ingombre di uomini e mezzi; qualcuno viene investito e schiacciato dalle ruote dei mezzi in fuga. Dalle colline circostanti spuntano i carri armati russi; cominciano i bombardamenti. Morti, feriti, case che crollano e bruciano.
Scorgo un camion carico di scatolette e pane. Mentro sto per fare provvista, apparecchi russi mitragliano e bombardano. Mi riparo sotto il camion che prende fuoco, fuggo e nella corsa perdo tutto quanto avevo preso.
Fermarsi può essere la sua e nostra fine. II 1943 è già iniziato e si continua a camminare, mangiare quello che ci viene offerto dai civili che ci ospitano durante la notte. Senza il loro aiuto nessuno di noi avrebbe fatto ritorno in Patria.
Siamo così a Pantelejmonowka (così mi dicono). Non ricordo come ho fatto ad arrivarci, né quando. Quando mi riprendo sono in una stanza di un grande caseggiato coricato sulla paglia. Riva, l'infermiere, misura la temperatura: 39,6; c'è un medico, anche lui nelle nostre stesse condizioni; mi riscontra pleurite, bronchite, sospetto di ulcera. Ricovero. Ma dove? Gli ospedali stanno evacuando, i russi vengono avanti, c'è pericolo di rimanere prigionieri.
Si riparte e vengo caricato su di una carretta della fanteria: spesso dobbiamo scendere per rimetterla in carreggiata. Durante questo tortuoso viaggio incontro altri mezzi con carichi pietosi: feriti e congelati tutti bisognosi di cure e di nutrimento, ma niente di quanto abbisogna può essere dato loro, solo neve e freddo. Così senza alcun conforto, alcuni vengono abbandonati ad un crudo destino. Ciò che mi colpì maggiormente fu l'incontro con un Serg. Maggiore Pontiere, venuto da poco dall'Italia per darci il cambio: aveva già perso tutti e due i piedi per congelamento. L'avevo conosciuto ed incontrato a Verona, da recluta, mi ricordai che non aveva più il padre: lo rividi ancora in caserma a Verona nel mese di luglio 1943: usava le stampelle.
A Dnjepropetrowsk gli ospedali non ricevevano più ammalati.
Dopo quattro giorni arrivo a Leopoli; durante il viaggio il ghiaccio aveva coperto i vetri dei finestrini: non ho visto nulla.
Anche a Leopoli non accettano più. Si prosegue attraverso Cracovia. Dopo un'altra accurata visita sono smistato per Vienna.
Vienna, una parola che suona bene al mio orecchio. L'Italia si fa sempre più vicina; il rimpatrio non è più un miraggio, una speranza, ma via via si sta facendo realtà.
Una breve riflessione: in Russia io ci passai due inverni e.nonostante avessi percorso gli ultimi chilometri della ritirata con i piedi privi di calze in quanto non entravano più nelle scarpe, non ho mai avuto alcun principio di congelamento.
Fu fortuna o miracolo? Non so, forse il destino.
Enrico Montani
Diario della Campagna di Russia di Enrico Montani
01/01/1941 - 28/02/1943
Sergente Maggiore Enrico Montani, IX Btg., 22ª Compagnia Pontieri
fine