fronte russo c ero anch io 2Tratto da

Fronte russo: c'ero anch'io, Volume 1°

A cura di Giulio Bedeschi

Ugo Mursia Editore, Milano, 1982


Testimonianza del soldato Gino Balicco

– Battaglione Pontieri –


IL GIORNO PIÙ BRUTTO DELLA MIA VITA

Dopo 18 mesi da che eravamo in Russia, noi del C.S.I.R., ottenuto il cambio, ci accingevamo a rientrare in Italia. Ci trovavamo nella cittadina di Cantemirowka in attesa del rimpatrio. Il mattino del terzo giorno che eravamo li, siamo andati come ogni giorno alla cu­cina a ritirare il caffè. Il tenente che era presente alla distribuzione ci disse: «State ritirati nei vostri alloggi, perché al fronte la va male, i russi attaccano continuamente e se i tedeschi vengono a sapere che qui ci sono degli uomini, ci rispediscono al fronte.»

Mentre percor­revo un tratto di strada, ecco arrivare degli automezzi italiani stra­carichi di soldati, alcuni erano aggrappati da tutte le parti, procede­vano a forte andatura e facevano paura. Ci rendemmo subito conto che quelli erano in ritirata, i russi avevano rotto il fronte ed erano dilagati. Noi siamo corsi nella casa dove abitavamo, a prendere la nostra roba, e siamo tornati sulla strada, dove passavano ancora degli automezzi, ma erano già al completo carico. Non mi restò che di av­viarmi a piedi con molti altri. Poco dopo il passaggio degli automezzi si esauri del tutto.

Noi procedevamo ammassati occupando tutta la sede stradale. Ufficiali non ne avevamo, procedevamo a passo forzato, quasi tutti avevano abbandonato lo zaino per essere più leggeri; an­ch'io mi liberai delle coperte e della roba meno necessaria che avevo nello zaino, alcuni avevano abbandonato addirittura le armi. Io oltre al mio moschetto raccolsi una di quelle carabine con la baionetta fissa in cima alla canna, raccolsi anche una ventina di caricatori, me ne ero riempite le tasche del pastrano.

Camminai quattro ore portando due armi; poi, incominciando a sentire la stanchezza, pensai che era suf­ficiente tenermi un'arma sola, molti non avevano più nemmeno quella e commisi l'errore di abbandonare il mio moschetto e tenermi la cara­bina più leggera. Quell'errore per poco il giorno dopo non mi costò la vita, non ricordo di aver visto altri militari, che avessero ancora come me lo zaino. Io procedevo a circa metà della lunga colonna di circa 2-3 mila uomini, il terreno era coperto di uno strato di neve gelata. Il tempo non era freddo anzi brillava un solicello, che a quella data in terra di Russia era un caso raro. Nel pomeriggio siamo giunti su un'altura dove vi erano alcuni tedeschi, vicino ad una baracca in legno. Quando arrivai lì io, proprio li davanti, due soldati tedeschi al comando di un tenente in tuta bianca infilarono i loro fucili di traverso e tagliarono la colonna: quelli che avevo davanti hanno pro­seguito, mentre noi e quelli che avevo dietro ci siamo ammassati lì. Il tenente tedesco ci disse in ottimo italiano: «Italiani, dovete fer­marvi ed aiutarci a difendere la ferrovia.», che passava lì in fianco alla carrareccia per la quale eravamo giunti noi.

Fu fatto uno smista­mento, e quelli senza armi furono licenziati. Erano diverse centinaia, e proseguirono dietro la prima parte della colonna. Io pensai chissà se sarà un bene o un male essere stato fermato da questi tedeschi. Lì saltarono fuori due miei compagni di Compagnia, i quali erano ri­masti a piedi come noi, lì venne fuori anche un maggiore di fanteria, un piccolo uomo ormai anziano, il quale si sentiva seccato di dover stare agli ordini di un subalterno.
Furono fatte tante squadrette di 15 uomini e un soldato tedesco le accompagnava, non so quanto distante lungo la ferrovia. Anche i miei due compagni furono inclusi in quelle squadrette. Io ebbi la for­tuna di rimanere nell'ultima squadretta, quella che rimase lì sul posto col tenente. Siamo stati introdotti nella baracca rifugio, per metà sottoterra.


Calata la notte abbiamo fatto due turni di sentinella, un italiano e un tedesco, nella vicina trincea, scavata in fianco alla ferrovia, ogni tanto si sentiva qualche fucilata nelle vicinanze, lì feci conoscenza con un caporal maggiore di fanteria che era della mia provincia, era un tipo alto anche lui e della mia stessa età, siamo diventati amici mentre gli altri erano piccoli fanti di origine triestina, e giuliani.
Al mattino, appena incominciò a farsi giorno, iniziò una insistente sparatoria sempre più vicina, gli spari venivano dalla parte dove la sera si erano ritirati i nostri: allora erano andati forse incontro ai russi? Io pensai che forse quelle squadrette stessero combattendo ed ecco che il soldato tedesco che era di guardia corse nel rifugio a dare l'allarme. Il tenente ci diede ordine di andare tutti nella vicina trin­cea. Io lasciai nel rifugio il mio zaino nel quale avevo ancora un po' di roba, e il rasoio. Ci siamo quindi schierati nella trincea, io pensai chissà se questi tedeschi mi faranno sacrificare qui in questa trincea nel tentativo di difenderla.
Gli spari erano sempre più vicini, pensavo di veder giungere al­cuni dei nostri di quelle squadrette, ma non ne giunse nessuno. Il tenente tedesco immobile dietro il terrapieno della baracca, con la sua tuta bianca osservava se i russi si avvicinavano. Recitai qualche preghiera, cercai di concepire un atto di dolore perfetto, e spiavo fuori della trincea con la carabina imbracciata, pronto, a far fuoco sul primo russo che si fosse presentato.


I miei compagni erano sdraiati sul fondo della trincea con la faccia in terra. Io capii che avevano molta paura e gli dissi: «Ma state su, attenti se arrivano, noi siamo col corpo sotto terra, e se loro vengono avanti gli possiamo sparare.» Loro mi dissero che non avevano car­tucce, io gli dissi che se volevano dei caricatori io ne avevo, ma nes­suno mi disse di dargliene. Per loro i russi facevano in tempo ad ar­rivare sull'orlo della trincea, e con la baionetta infilzarli nella schiena. Gli spari venivano non di fronte come avrei creduto, ma dalla strada dove si erano ritirati i nostri. Quando i russi sbucarono dietro una ca­setta a circa 100 metri, il comandante tedesco ci diede ordine fa­cendoci segno col braccio di ritirarci, allora anche i miei compagni furono lesti ad alzarsi e saltar fuori della trincea. Abbiamo scavalcato lo steccato in legno che divideva la ferrovia, e siamo saltati sulla car­rareccia; mentre la attraversavamo di corsa, mi voltai a guardare a sinistra e vidi venire avanti per quella strada i soldati russi: proce­devano in fila indiana, avevano la mantellina corta come i nostri ber­saglieri, imbracciavano un fucile e sulla schiena sotto la mantellina una gobba, forse uno zaino. Io pensai che fosse qualche reparto ce­lere.

Il primo davanti, forse l'ufficiale, era già un po' anziano, stava ricaricando il fucile dopo averci sparato. Noi ci buttammo per la campagna, dopo un cento metri abbiamo trovato una stradetta che scendeva giù in basso, dove si vedevano alcune case rade; abbiamo continuato a scendere, a destra della strada vi era il bosco, e da quel bosco ogni tanto ci veniva sparato qualche colpo di fucile. Io proce­devo in testa al gruppetto con la carabina imbracciata, seguito dai miei compagni. Mentre si passò su un ponticello gli spari furono più numerosi, allora ci siamo avviati di corsa. Dopo un altro centinaio di metri abbiamo trovato abbandonato in mezzo alla strada un ri­morchio di cucina, sul quale si vedeva una coscia di manzo, e della legna segata.

Il caporal maggiore mi disse «Monta su e taglia un pezzo di quella carne che andremo a farla cuocere da qualche parte.»

Mi diede un temperino, ed io mi arrampicai su, vi era pure uno zaino pieno di roba, lo apersi in fretta, buttai fuori il corredo, vi lasciai un vaso di miele e un paio di calze.
Vi era lì vicino un sacco, ne feci uno squarcio, era pieno di pac­chetti di gallette, ne misi parecchi nello zaino, poi vi era una cassa piena di bottiglie di liquore, ne misi 7-8 nello zaino, poi guardai se vi era del formaggio, ma in quell'istante mi sibilò vicino una fuci­lata, il caporal maggiore che mi attendeva a terra mi disse: «Scendi, scendi che ti sparano.»

Gli calai giù lo zaino e balzai a terra. Mentre mi mettevo lo zaino in spalla, uscì dai cespugli che erano in fianco alla strada un'arzilla vecchietta la quale mi disse di darle una bottiglia di liquore, io le indicai dove poteva prenderla sul rimorchio. Ci siamo quindi avviati per la strada sgranocchiando gallette, abbiamo sturato anche una bottiglia di liquore. Un cento metri più avanti abbiamo raggiunto i nostri compagni, i quali si erano fermati presso tre auto­mezzi carichi di soldati tedeschi, i quali si erano fermati perché du­rante la notte erano giunti lì trecento soldati russi.
I tedeschi, alcuni ubriachi, senza ufficiali avevano paura a prose­guire. I miei compagni visto che io avevo dei viveri mi si affollarono d'intorno, io diedi un pacchetto di gallette a ciascuno e un paio di bottiglie di liquore; mentre passavo vicino ad un automezzo tedesco carico di soldati, uno di quei crucchi che erano sul cassone mi chiamò vicino, e mi disse di mostrargli il cartellino che era attaccato allo zaino, io non l'avevo neanche scorto quel cartellino, era una stecca di legno. Quello disse che lo zaino era suo. II caporale che mi era vicino protestò. Volevo togliere il contenuto e dargli lo zaino, ma quello si oppose, mi minacciò col fucile. Rendendomi conto della critica situazione in cui ci trovavamo gli cedetti lo zaino senza tanti rimpianti. Il caporale visto che i tedeschi erano indecisi sul da farsi mi disse: «Noi tagliamo di qui attraverso la campagna, non vedi che quei tedeschi lì son tutti ubriachi?»

Mentre si stava guardando la direzione da prendere, ecco sbucare dietro una casa, per una stradetta di campagna alla nostra sinistra, una fila di soldati russi. Prosegui­vano in fila indiana, indossavano un lungo pastrano, e portavano il loro fucile a bracciarm. Non avevano né zaino, né giberne. Procede­vano con lo sguardo fisso a terra, avevano l'aria di essere molto stan­chi: se avessi avuto una mitraglia ne avrei fatto un macello. Forse per sfruttare il successo avevano camminato tutto il giorno prima e anche la notte, allora noi una decina ci siamo affrettati a partire, ab­biamo raggiunto la campagna deserta, eravamo tutti contenti di aver fatto in tempo a ritirarci, mentre temo che i tedeschi siano stati tutti catturati. Dopo poco altro cammino, ecco, un duecento metri davanti a noi, una fila di uomini civili, uno ogni 20-30 metri, poi a sinistra due cavalieri col mantello nero, i quali andavano verso gli altri uomi­ni, nel mezzo vi era ancora un vuoto di circa 200 metri, io proce­devo in testa al gruppetto con tale decisione e con la carabina imbrac­ciata, che quei russi civili presero paura e si allontanarono andando a destra, mentre i due cavalieri si fermarono al loro posto, io decisi di passare nel mezzo. Quando fui a circa 100 metri dai due cavalieri, e stavo per oltrepassarli al largo, vidi che quei due avevano in mano un'arma corta.
Ero fermamente deciso, quel liquore mi aveva messo addosso una volontà e un grande coraggio. Io non indugiai, volevo restituire ai russi quei colpi che poco prima mi avevano sparato. Mi accucciai a terra, puntai il primo cavaliere e gli sparai. Quello si rovesciò da una parte fino a terra, il cavallo rimasto libero se ne andò per suo conto. Allora mirai anche l'altro cavaliere che era un 20 metri più distante e gli sparai. Anche questo si rovesciò da una parte fingen­dosi colpito, ma poi lo vidi andare carponi per terra, mentre il cavallo bianco fece qualche passo zoppicando, poi si fermò. Allora ripartii di corsa per raggiungere i miei compagni che nel frattempo avevano proseguito; raggiuntili e portatomi davanti, si apriva una specie di ca­nale che saliva verso destra. Sul fondo del canale vi era un sentiero dove si poteva camminare meglio; ma poi, voltandomi indietro, vidi il secondo cavaliere che avevo appiedato il quale ci seguiva, io gli sparai di nuovo, ma senza colpirlo. Gli sparai ancora, ma quello con­tinuava a seguirci: mi resi allora conto che avevo commesso un errore a cambiare la mia arma, la quale aveva un tiro preciso, quando era­vamo in trincea vicino al Don: il settembre precedente avevo colpito col primo colpo una lepre a più di cento metri.

Allora tornai in testa al gruppetto, ma poi mi resi conto che noi, entrando in quel canale profondo circa 15 metri con le due scarpate laterali, ci eravamo messi come in una trappola, se fosse arrivato qualche partigiano sull'orlo ci avrebbe potuto sparare giù, e poi tirandosi indietro un passo sareb­be stato protetto dal terreno. Io procedevo guardando sempre lassù in cima alla scarpata, se alle volte arrivava qualcuno. Ed ecco che dopo altri pochi passi, vidi lassù accucciato sull'orlo della scarpata un giovincello di 17-18 anni col suo parabellum imbracciato, io non indugiai e gli sparai su un colpo. Quello rimase li, tale quale, non mo­strò nemmeno di aver accusato il colpo, allora io presi paura pensando che se fosse arrivato qualche altro più deciso ci avrebbe crivellati di colpi; quindi decisi di arrampicarmi su per la scarpata e guardare se qualcun altro era nelle vicinanze.
Quando arrivai sull'orlo guardando a destra, vidi quella decina di giovani partigiani che puntavano anche loro verso l'altura dove arrivava il canale. Io feci il calcolo che se correvo, forse sarei arri­vato prima dei russi su quell'altura, poi voltandomi indietro vidi an­cora quel partigiano al quale avevo sparato più volte senza colpirlo il quale ci seguiva sempre, gli sparai ancora un colpo ma quello si era sdraiato a terra. Allora tornai giù sul fondo del canale dove si cam­minava meglio. Sul sentiero raggiunsi i miei compagni e li superai di corsa; li avvertii di guardarsi da quello che ci seguiva, ma loro non spararono un solo colpo, e in un breve tratto di salita staccai i miei compagni di almeno 100 metri. Ora il canale era sempre meno pro­fondo, per esaurirsi del tutto, su quell'altura, dove vi erano dei gran­di mucchi di paglia. Io arrivai lassù, trafelato, e guardai a destra e vidi quella decina di giovani russi che stavano arrivando un centinaio di metri più in là.
Proseguii il mio cammino tra un pagliaio e l'altro, ma ecco che vicino ad un pagliaio che avevo un 50 metri a destra vi era un giova­notto il quale imbracciava un parabellum. Io gli puntai la carabina, indugiai un po' a prendere la mira, quello accortosi fu lesto a girare dietro il pagliaio, allora anch'io mi misi dietro un pagliaio, poi presi una decisione disperata. Pensai di arrampicarmi sul pagliaio e di lassù difendermi con la carabina. Mi levai in fretta il pastrano per essere più libero a combattere, misi il piede su in alto sul pagliaio per ar­rampicarmi, ma lo scarpone non faceva presa, mi scivolava in basso, allora decisi di levarmi anche gli scarponi, ciò che feci in fretta, li misi li in terra vicino al pastrano. Allora riuscii ad arrampicarmi sul pagliaio, e mi appostai là sopra con la carabina imbracciata guardando sempre verso quel pagliaio che avevo poco distante nel caso che a quel giovane venisse la tentazione di spiar fuori. Dopo qualche se­condo che ero lassù ecco arrivare in cima al canale i miei compagni, per primo il caporale poi gli altri 7 o 8, tutti in fila. Contemporanea­mente arrivarono da destra anche quei dieci russi, i nostri gettarono in terra le armi e alzarono le mani in segno di resa. Rimasi stupe­fatto. Il caporale che era più in qua verso me, mi scorse sul pagliaio e mi gridò:

«Arrenditi anche tu, dove vuoi andare da solo?» Io gli risposi in bergamasco: «I me ciapa miga me, i rusi.»
Dette queste parole ecco arrivare di corsa tra un pagliaio e l'altro quel partigiano, al quale avevo sparato 8 colpi senza colpirlo. Stava passando un 20 metri distante dal caporale, e veniva verso di me. Io pensai questo ce l'ha con me. Se il caporale avesse raccolto la sua arma e gli avesse sparato... ma se il coraggio non c'è non lo si può fabbricare. Io allora volevo sparare a quel partigiano che correva verso di me, ma pensai che se lo avessi ancora nancato lui mi avrebbe spa­rato una raffica. Pensai di fuggire, balzai dal pagliaio, non raccolsi né pastrano né scarponi, non ne avevo il tempo, quello era ormai vi­cino; mi buttai giù per la discesa opposta ma fatti pochi balzi sentii una raffica di 10 o 15 colpi dietro le mie spalle... mi voltai. Il parti­giano che mi aveva sparato era già al di qua del pagliaio sul quale ero salito io, gli puntai la carabina ma quello si buttò per terra. Io non pensai in quel momento di camminare a ritroso tenendolo sotto la minaccia della mia arma, quello non si sarebbe mosso, ma mi volevo allontanare da quel luogo; gli voltai le spalle e ripresi la mia corsa, ma dopo due o tre salti quello mi sparò una seconda raffica. Mi voltai di nuovo puntandogli la carabina ma quello era già giù a terra; ripresi la mia corsa e quello mi sparò la terza raffica, mi voltai di nuovo, ma quello si era già accucciato,

Partii per la quarta volta e quello mi sparò la quarta raffica. Mi voltai di nuovo, questa volta deciso a finirla con quel gioco così pericoloso. Feci due passi verso di lui per sparargli, l'avevo un po' distanziato, tuttavia offriva ancora un grosso bersaglio lassù accucciato, ma ero ormai senza cartucce, i caricatori mi erano rimasti nelle tasche di pastrano abbandonato con gli scarponi vicino al pagliaio, e volevo serbare quei pochi colpi che ancora avevo per un caso più disperato, che mi poteva ancora capitare. Ripartii quindi di corsa, quello non mi sparò più; mi voltavo ogni tanto a guardarlo, era sempre lassù, forse aveva finito i colpi. Io corsi ancora per un tratto, poi visto che non mi inseguiva più rallentai la corsa e mi misi al passo.


Ero tutto sudato. Allora mi resi conto della mia situazione: ero rimasto solo, senza pastrano, senza mangiare; quando poi guardai i miei piedi senza scarpe in mezzo alla neve in pieno inverno, mi spa­ventai. Per fortuna, caso eccezionale in quella stagione, non faceva freddo, anzi brillava un solicello ormai prossimo al tramonto. Con­tinuavo a camminare speditamente per la campagna ora pianeggian­te; un 150 metri a destra si vedeva una strada parallela alla mia direzione di marcia, ma io per le strade non ci volevo più andare. Poi ecco laggiù in fondo davanti a me due casupole, poi più in alto sul colle altri uomini schierati in fila.

Gli ultimi due a sini­stra indossavano tute bianche con cerniere che luccicavano al sole. Pensai che quelli erano forse tedeschi; mi avvicinai a quelle due casupole, gli passai vicino ma non vidi nessuno, incominciai a salire verso quell'altura ed ecco incrociare quella strada che dopo una curva andava verso il paese che era allungato nel fondo valle. Io incominciai a salire, arrivai in cima al pendio, proprio sul culmine ecco quegli uomini in fila. Feci ancora qualche passo, poi mi fermai per farmi vedere. Quegli uomini erano rivolti verso l'altra parte. Pensai che stessero osservando qualche reparto in ritirata. Poco dopo l'ultimo a sinistra si voltò indietro e mi vide, fece qualche passo verso di me, per vedermi meglio, poi mi gridò: «Camerat, idi suda...», che in russo credo che voglia dire di andare lassù. «Povero me, son russi anche questi!

Allora pensai di fuggire giù per dove ero salito. Quello, visto che indugiavo e non eseguivo il suo ordine, mi ingiunse «Bi­stro», che vuol dire di far presto o spicciarsi, allora io gli risposi «Sicias» che vuol dire adesso vengo, ma invece mi alzai e giù a tutta velocità per la discesa.
Fatti pochi passi quello incominciò a spararmi, mi sparò una de­cina di colpi, io questa volta non mi voltai nemmeno pensando che se non mi colpiva subito, poiché dopo altri pochi passi il terreno di­ventava molto più ripido, quello non mi avrebbe più visto; infatti, raggiunta la ripida discesa quello non mi vide più. Arrivai giù sulla strada, la attraversai, scesi giù ancora passando vicino a quelle due case isolate, le oltrepassai e feci ancora un cento metri di terreno pianeggiante ed arrivai sull'orlo di una scarpata che andava giù come una slavina dove sotto vi era un boschetto. Feci giù due passi per la scarpata, e mi voltai a guardare se quel tale mi aveva inseguito. In­fatti erano scesi tutti e due quelli con le tute bianche, erano vicino a quelle case e guardavano qua e là, mi avevano perso di vista, sem­bravano due segugi che avevano perso la lepre. Allora venne anche a me la tentazione di gridare «Camerat ruschi, edi sudà!» ma poi pen­sai di risparmiare quelle poche cartucce che avevo ancora, e se avessi sparato avrei magari attirato l'attenzione di qualche altro, che potevo avere alle spalle.


Dopo un po' quei due non li vidi più, allora scesi giù nel bosco, per cercare un nascondiglio, mi misi dietro un cespuglio. Allora mi persi di coraggio, stava calando la notte, in paese non ci volevo an­dare per paura di farmi catturare, oltrepassare il paese era difficile senza la protezione della notte. Mi guardai attorno e vidi, su in alto, fuori del bosco, in mezzo alla campagna, un gran mucchio di paglia, pensai di andare a nascondermi in quel pagliaio. Prima di uscire dal bosco, mi fermai ancora un po' dietro un cespuglio, ad attendere la notte.
Dopo un momento che ero lì passarono due russi civili appena fuori del bosco, avevano un sacco sulla schiena legato a sistema di zaino, calzavano stivaloni, avevano l'apparente età di 30 anni, cam­minavano con una certa ansia mista a timore. Pensai che quei due erano collaboratori dei tedeschi ed ora si ritiravano, mi passarono a non più di 5 metri ma non mi videro, e proseguirono alla volta del paese. Mi fermai ancora un po', lì nascosto, poi quando fu ormai buio uscii dal bosco e raggiunsi il pagliaio che era sopra a circa 50 metri; mi avvicinai guardingo, quando fui vicino mi fermai ancora un momento a guardare se vi era qualcuno nelle vicinanze e rassicu­ratomi mi arrampicai sul pagliaio. Anche là sopra vi era un po' di neve gelata, incominciai a scavare per farne una tana; la paglia che tiravo su la mettevo attorno alla buca. Quando ci potei stare rannic­chiato mi cacciai dentro, a sedere, mi levai quelle povere calze, erano tutte bagnate, me le misi sotto sperando che si asciugassero un po', mi avvolsi i piedi nel copricapo, mi levai la giubba e me la misi sopra come coperta, misi la carabina di traverso sopra il capo, mi coprii tutto di paglia anche la testa e dissi: «Ora resto qui fin che sono morto».

Allora desiderai di essere a casa mia vicino alla mia stufa. Se in quel momento qualcuno mi avesse detto: «Accetti di tornare a casa ma vivere solo pochi giorni poi morire», io avrei accettato quella condizione di morire, ma a casa mia. Allora pensai di chiedere l'aiuto a chi me lo poteva dare e ringraziai il cielo di avermi protetto quel giorno da tutti quei colpi di arma che mi erano stati sparati, pensai anche ai miei compagni che erano stati tutti catturati, però se avessero arrischiato, forse qualcuno avrebbe potuto seguirmi. Recitai le orazioni e anche il rosario dopo di che mi tranquillizzai, mi venne sonno e mi addormentai.

Soldato Gino Balicco
Battaglione Pontieri

 

 

IL GIORNO PIÙ BRUTTO DELLA MIA VITA

Dopo 18 mesi da che eravamo in Russia, noi del CSIR, ottenuto il cambio, ci accingevamo a rientrare in Italia. Ci trovavamo nella cittadina di Cantemirowka in attesa del rimpatrio. Il mattino del terzo giorno che eravamo li, siamo andati come ogni giorno alla cu­cina a ritirare il caffè. Il tenente che era presente alla distribuzione ci disse: « State ritirati nei vostri alloggi, perché al fronte la va male, i russi attaccano continuamente e se i tedeschi vengono a sapere che qui ci sono degli uomini, ci rispediscono al fronte ». Mentre percor­revo un tratto di strada, ecco arrivare degli automezzi italiani stra­carichi di soldati, alcuni erano aggrappati da tutte le parti, procede­vano a forte andatura e facevano paura. Ci rendemmo subito conto che quelli erano in ritirata, i russi avevano rotto il fronte ed erano dilagati. Noi siamo corsi nella casa dove abitavamo, a prendere la nostra roba, e siamo tornati sulla strada, dove passavano ancora degli automezzi, ma erano già al completo carico. Non mi restò che di av­viarmi a piedi con molti altri. Poco dopo il passaggio degli automezzi si esauri del tutto. Noi procedevamo ammassati occupando tutta la sede stradale. Ufficiali non ne avevamo, procedevamo a passo forzato, quasi tutti avevano abbandonato lo zaino, per essere più leggeri, an­ch'io mi liberai delle coperte e della roba meno necessaria che avevo nello zaino, alcuni avevano abbandonato addirittura le armi. Io oltre al mio moschetto raccolsi una di quelle carabine con la baionetta fissa in cima alla canna, raccolsi anche una ventina di caricatori, me ne ero riempite le tasche del pastrano. Camminai quattro ore portando due armi; poi, incominciando a sentire la stanchezza, pensai che era suf­ficiente tenermi un'arma sola, molti non avevano più nemmeno quella e commisi l'errore di abbandonare il mio moschetto e tenermi la cara­bina più leggera. Quell'errore per poco il giorno dopo non mi costò la vita, non ricordo di aver visto altri militari, che avessero ancora come me lo zaino. Io procedevo a circa metà della lunga colonna di circa 2-3 mila uomini, il terreno era coperto di uno strato di neve gelata. Il tempo non era freddo anzi brillava un solicello, che a quella data in terra di Russia era un caso raro. Nel pomeriggio siamo giunti su un'altura dove vi erano alcuni tedeschi, vicino ad una baracca in legno. Quando arrivai li io, proprio li davanti, due soldati tedeschi al comando di un tenente in tuta bianca infilarono i loro fucili di traverso e tagliarono la colonna: quelli che avevo davanti hanno pro­seguito, mentre noi e quelli che avevo dietro ci siamo ammassati lì. Il tenente tedesco ci disse in ottimo italiano: « Italiani, dovete fer­marvi ed aiutarci a difendere la ferrovia », che passava lì in fianco alla carrareccia per la quale eravamo giunti noi. Fu fatto uno smista­mento, e quelli senza armi furono licenziati. Erano diverse centinaia, e proseguirono dietro la prima parte della colonna. Io pensai chissà se sarà un bene o un male essere stato fermato da questi tedeschi. Lì saltarono fuori due miei compagni di compagnia, i quali erano ri­masti a piedi come noi, lì venne fuori anche un maggiore di fanteria, un piccolo uomo ormai anziano, il quale si sentiva seccato di dover stare agli ordini di un subalterno.

Furono fatte tante squadrette di 15 uomini e un soldato tedesco le accompagnava, non so quanto distante lungo la ferrovia. Anche i miei due compagni furono inclusi in quelle squadrette. Io ebbi la for­tuna di rimanere nell'ultima squadretta, quella che rimase lì sul posto col tenente. Siamo stati introdotti nella baracca rifugio, per metà sottoterra.

Calata la notte abbiamo fatto due turni di sentinella, un italiano e un tedesco, nella vicina trincea, scavata in fianco alla ferrovia, ogni tanto si sentiva qualche fucilata nelle vicinanze, lì feci conoscenza con un caporal maggiore di fanteria che era della mia provincia, era un tipo alto anche lui e della mia stessa età, siamo diventati amici mentre gli altri erano piccoli fanti di origine triestina, e giuliani.

Al mattino, appena incominciò a farsi giorno, iniziò una insistente sparatoria sempre più vicina, gli spari venivano dalla parte dove la sera si erano ritirati i nostri: allora erano andati forse incontro ai russi? Io pensai che forse quelle squadrette stessero combattendo ed ecco che il soldato tedesco che era di guardia corse nel rifugio a dare l'allarme. Il tenente ci diede ordine di andare tutti nella vicina trin­cea. Io lasciai nel rifugio il mio zaino nel quale avevo ancora un po' di roba, e il rasoio. Ci siamo quindi schierati nella trincea, io pensai chissà se questi tedeschi mi faranno sacrificare qui in questa trincea nel tentativo di difenderla.

Gli spari erano sempre più vicini, pensavo di veder giungere al­cuni dei nostri di quelle squadrette, ma non ne giunse nessuno. Il tenente tedesco immobile dietro il terrapieno della baracca, con la sua tuta bianca osservava se i russi si avvicinavano. Recitai qualche preghiera, cercai di concepire un atto di dolore perfetto, e spiavo fuori della trincea con la carabina imbracciata, pronto, a far fuoco sul primo russo che si fosse presentato.

I miei compagni erano sdraiati sul fondo della trincea con la faccia in terra. Io capii che avevano molta paura e gli dissi: « Ma state su, attenti se arrivano, noi siamo col corpo sotto terra, e se loro vengono avanti gli possiamo sparare ». Loro mi dissero che non avevano car­tucce, io gli dissi che se volevano dei caricatori io ne avevo, ma nes­suno mi disse di dargliene. Per loro i russi facevano in tempo ad ar­rivare sull'orlo della trincea, e con la baionetta infilzarli nella schiena. Gli spari venivano non di fronte come avrei creduto, ma dalla strada dove si erano ritirati i nostri. Quando i russi sbucarono dietro una ca­setta a circa 100 metri, il comandante tedesco ci diede ordine fa­cendoci segno col braccio di ritirarci, allora anche i miei compagni furono lesti ad alzarsi e saltar fuori della trincea. Abbiamo scavalcato lo steccato in legno che divideva la ferrovia, e siamo saltati sulla car­rareccia; mentre la attraversavamo di corsa, mi voltai a guardare a sinistra e vidi venire avanti per quella strada i soldati russi: proce­devano in fila indiana, avevano la mantellina corta come i nostri ber­saglieri, imbracciavano un fucile e sulla schiena sotto la mantellina una gobba, forse uno zaino. Io pensai che fosse qualche reparto ce­lere. Il primo davanti, forse l'ufficiale, era già un po' anziano, stava ricaricando il fucile dopo averci sparato. Noi ci buttammo per la campagna, dopo un cento metri abbiamo trovato una stradetta che scendeva giù in basso, dove si vedevano alcune case rade; abbiamo continuato a scendere, a destra della strada vi era il bosco, e da quel bosco ogni tanto ci veniva sparato qualche colpo di fucile. Io proce­devo in testa al gruppetto con la carabina imbracciata, seguito dai miei compagni. Mentre si passò su un ponticello gli spari furono più numerosi, allora ci siamo avviati di corsa. Dopo un altro centinaio di metri abbiamo trovato abbandonato in mezzo alla strada un ri­morchio di cucina, sul quale si vedeva una coscia di manzo, e della legna'segata. Il caporal maggiore mi disse «Monta su e taglia un pezzo di quella carne che andremo a farla cuocere da qualche parte », mi diede un temperino, ed io mi arrampicai su, vi era pure uno zaino pieno di roba, lo apersi in fretta, buttai fuori il corredo, vi lasciai un vaso di miele e un paio di calze.

Vi era lì vicino un sacco, ne feci uno squarcio, era pieno di pac­chetti di gallette, ne misi parecchi nello zaino, poi vi era una cassa piena di bottiglie di liquore, ne misi 7-8 nello zaino, poi guardai se vi era del formaggio, ma in quell'istante mi sibilò vicino una fuci­lata, il caporal maggiore che mi attendeva a terra mi disse: « Scendi, scendi che ti sparano », gli calai giù lo zaino e balzai a terra. Mentre mi mettevo lo zaino in spalla, uscì dai cespugli che erano in fianco alla strada un'arzilla vecchietta la quale mi disse di darle una bottiglia di liquore, io le indicai dove poteva prenderla sul rimorchio. Ci siamo quindi avviati per la strada sgranocchiando gallette, abbiamo sturato anche una bottiglia di liquore. Un cento metri più avanti abbiamo raggiunto i nostri compagni, i quali si erano fermati presso tre auto­mezzi carichi di soldati tedeschi, i quali si erano fermati perché du­rante la notte erano giunti lì trecento soldati russi.

I tedeschi, alcuni ubriachi, senza ufficiali avevano paura a prose­guire. I miei compagni visto che io avevo dei viveri mi si affollarono d'intorno, io diedi un pacchetto di gallette a ciascuno e un paio di bottiglie di liquore, mentre passavo vicino ad un automezzo tedesco carico di soldati, uno di quei crucchi che erano sul cassone mi chiamò vicino, e mi disse di mostrargli il cartellino che era attaccato allo zaino, io non l'avevo neanche scorto quel cartellino, era una stecca di legno. Quello disse che lo zaino era suo. II caporale che mi era vicino protestò. Volevo togliere il contenuto e dargli lo zaino, ma quello si oppose, mi minacciò col fucile. Rendendomi conto della critica situazione in cui ci trovavamo gli cedetti lo zaino senza tanti rimpianti. Il caporale visto che i tedeschi erano indecisi sul da farsi mi disse: « Noi tagliamo di qui attraverso la campagna, non vedi che quei tedeschi lì son tutti ubriachi? ». Mentre si stava guardando la direzione da prendere, ecco sbucare dietro una casa, per una stradetta di campagna alla nostra sinistra, una fila di soldati russi. Prosegui­vano in fila indiana, indossavano un lungo pastrano, e portavano il loro fucile a bracciarm. Non avevano né zaino, né giberne. Procede­vano con lo sguardo fisso a terra, avevano l'aria di essere molto stan­chi: se avessi avuto una mitraglia ne avrei fatto un macello. Forse per sfruttare il successo avevano camminato tutto il giorno prima e anche la notte, allora noi una decina ci siamo affrettati a partire, ab­biamo raggiunto la campagna deserta, eravamo tutti contenti di aver fatto in tempo a ritirarci, mentre temo che i tedeschi siano stati tutti catturati. Dopo poco altro cammino, ecco, un duecento metri davanti a noi, una fila di uomini civili, uno ogni 20-30 metri, poi a sinistra due cavalieri col mantello nero, i quali andavano verso gli altri uomi­ni, nel mezzo vi era ancora un vuoto di circa 200 metri, io proce­devo in testa al gruppetto con tale decisione e con la carabina imbrac­ciata, che quei russi civili presero paura e si allontanarono andando a destra, mentre i due cavalieri si fermarono al loro posto, io decisi di passare nel mezzo. Quando fui a circa 100 metri dai due cavalieri, e stavo per oltrepassarli al largo, vidi che quei due avevano in mano un'arma corta.

Ero fermamente deciso, quel liquore mi aveva messo addosso una volontà e un grande coraggio. Io non indugiai, volevo restituire ai russi quei colpi che poco prima mi avevano sparato. Mi accucciai a terra, puntai il primo cavaliere e gli sparai. Quello si rovesciò da una parte fino a terra, il cavallo rimasto libero se ne andò per suo conto. Allora mirai anche l'altro cavaliere che era un 20 metri più distante e gli sparai. Anche questo si rovesciò da una parte fingen­dosi' colpito, ma poi lo vidi andare carponi per terra, mentre il cavallo bianco fece qualche passo zoppicando, poi si fermò. Allora ripartii di corsa per raggiungere i miei compagni che nel frattempo avevano proseguito, raggiuntili e portatomi davanti, si apriva una specie di ca­nale che saliva verso destra. Sul fondo del canale vi era un sentiero dove si poteva camminare meglio; ma poi, voltandomi indietro, vidi il secondo cavaliere che avevo appiedato il quale ci seguiva, io gli sparai di nuovo, ma senza colpirlo. Gli sparai ancora, ma quello con­tinuava a seguirci: mi resi allora conto che avevo commesso un errore a cambiare la mia arma, la quale aveva un tiro preciso, quando era­vamo in trincea vicino al Don: il settembre precedente avevo colpito col primo colpo una lepre a più di cento metri. Allora tornai in testa al gruppetto, ma poi mi resi conto che noi, entrando in quel canale profondo circa 15 metri con le due scarpate laterali, ci eravamo messi come in una trappola, se fosse arrivato qualche partigiano sull'orlo ci avrebbe potuto sparare giù, e poi tirandosi indietro un passo sareb­be stato protetto dal terreno. Io procedevo guardando sempre lassù in cima alla scarpata, se alle volte arrivava qualcuno. Ed ecco che dopo altri pochi passi, vidi lassù accucciato sull'orlo della scarpata un giovincello di 17-18 anni col suo parabellum imbracciato, io non indugiai e gli sparai su un colpo. Quello rimase li, tale quale, non mo­strò nemmeno di aver accusato il colpo, allora io presi paura pensando che se fosse arrivato qualche altro più deciso ci avrebbe crivellati di colpi; quindi decisi di arrampicarmi su per la scarpata e guardare se qualcun altro era nelle vicinanze.

Quando arrivai sull'orlo guardando a destra, vidi quella decina di giovani partigiani che puntavano anche loro verso l'altura dove arrivava il canale. Io feci il calcolo che se correvo, forse sarei arri­vato prima dei russi su quell'altura, poi voltandomi indietro vidi an­cora quel partigiano al quale avevo sparato più volte senza colpirlo il quale ci seguiva sempre, gli sparai ancora un colpo ma quello si era sdraiato a terra. Allora tornai giù sul fondo del canale dove si cam­minava meglio. Sul sentiero raggiunsi i miei compagni e li superai di corsa; li avvertii di guardarsi da quello che ci seguiva, ma loro non spararono un solo colpo, e in un breve tratto di salita staccai i miei compagni di almeno 100 metri. Ora il canale era sempre meno pro­fondo, per esaurirsi del tutto, su quell'altura, dove vi erano dei gran­di mucchi di paglia. Io arrivai lassù, trafelato, e guardai a destra e vidi quella decina di giovani russi che stavano arrivando un centinaio di metri più in là.

Proseguii il mio cammino tra un pagliaio e l'altro, ma ecco che vicino ad un pagliaio che avevo un 50 metri a destra vi era un giova­notto il quale imbracciava un parabellum. Io gli puntai la carabina, indugiai un po' a prendere la mira, quello accortosi fu lesto a girare dietro il pagliaio, allora anch'io mi misi dietro un pagliaio, poi presi una decisione disperata. Pensai di arrampicarmi sul pagliaio e di lassù difendermi con la carabina. Mi levai in fretta il pastrano per essere più libero a combattere, misi il piede su in alto sul pagliaio per ar­rampicarmi, ma lo scarpone non faceva presa, mi scivolava in basso, allora decisi di levarmi anche gli scarponi, ciò che feci in fretta, li misi li in terra vicino al pastrano. Allora riuscii ad arrampicarmi sul pagliaio, e mi appostai là sopra con la carabina imbracciata guardando sempre verso quel pagliaio che avevo poco distante nel caso che a quel giovane venisse la tentazione di spiar fuori. Dopo qualche se­condo che ero lassù ecco arrivare in cima al canale i miei compagni, per primo il caporale poi gli altri 7 o 8, tutti in fila. Contemporanea­mente arrivarono da destra anche quei dieci russi, i nostri gettarono in terra le armi e alzarono le mani in segno di resa. Rimasi stupe­fatto. Il caporale che era più in qua verso me, mi scorse sul pagliaio e mi gridò: « Arrenditi anche tu, dove vuoi andare da solo? ». Io gli risposi in bergamasco: « I me ciapa miga me, i rusi ».

Dette queste parole ecco arrivare di corsa tra un pagliaio e l'altro quel partigiano, al quale avevo sparato 8 colpi senza colpirlo. Stava passando un 20 metri distante dal caporale, e veniva verso di me. Io pensai questo ce l'ha con me. Se il captrale avesse raccolto la sua arma e gli avesse sparato, ma se il coraggio non c'è non lo si può fabbricare. Io allora volevo sparare a quel partigiano che correva verso di me, ma pensai che se lo avessi ancora nancato lui mi avrebbe spa­rato una raffica. Pensai di fuggire, balzai dal pagliaio, non raccolsi né pastrano né scarponi, non ne avevo il :empo, quello era ormai vi­cino, mi buttai giù per la discesa opposti ma fatti pochi balzi sentii una raffica di 10 o 15 colpi dietro le mi; spalle, mi voltai. Il parti­giano che mi aveva sparato era già al d qua del pagliaio sul quale ero salito io, gli puntai la carabina ma quello si buttò per terra. Io non pensai in quel momento di camminare a ritroso tenendolo sotto la minaccia della mia arma, quello non si sarebbe mosso, ma mi volevo allontanare da quel luogo; gli volli le spalle e ripresi la mia corsa, ma dopo due o tre salti quello m sparò una seconda raffica. Mi voltai di nuovo puntandogli la carabi ma quello era già giù a terra; ripresi la mia corsa e quello mi sparò la terza raffica, mi voltai di nuovo, ma quello si era già accucciato partii per la quarta volta e quello mi sparò la quarta raffica. Mi voltai di nuovo, questa volta deciso a finirla con quel gioco cosi pericoloso. Feci due passi verso di lui per sparargli, l'avevo un po' distanziato, tuttavia offriva ancora un grosso bersaglio lassù accucciato, ma, ero ormai senza cartucce, i caricatori mi erano rimasti nelle tasche di pastrano abbandonato con gli scarponi vicino al pagliaio, e volevo serbare quei pochi colpi che ancora avevo per un caso più disperato, che mi poteva ancora capitare. Ripartii quindi di corsa, quello non mi parò più, mi voltavo ogni tanto a guardarlo, era sempre lassù, forse ;veva finito i colpi, io corsi ancora per un tratto, poi visto che non mi inseguiva più rallentai la corsa e mi misi al passo.

Ero tutto sudato. Allora mi resi contj della mia situazione, ero rimasto solo, senza pastrano, senza mancare; quando poi guardai i miei piedi senza scarpe in mezzo alla nev in pieno inverno, mi spa­ventai. Per fortuna, caso eccezionale in ajella stagione, non faceva freddo, anzi brillava un solicello ormai prossimo al tramonto. Con­tinuavo a camminare speditamente per L campagna ora pianeggian­te; un 150 metri a destra si vedeva un strada parallela alla mia direzione di marcia, ma io per le strade non ci volevo più andare, poi ecco laggiù in fondo davanti a me due caupole, poi più in alto sul colle altri uomini schierati in fila, una dena. Gli ultimi due a sini­stra indossavano tute bianche con cernici che luccicavano al sole. Pensai che quelli erano forse tedeschi; ni avvicinai a quelle due casupole, gli passai vicino ma non vidi nssuno, incominciai a salire verso quell'altura ed ecco incrociare quelli strada che dopo una curva andava verso il paese che era allungato nel fondo valle. Io incominciai a salire, arrivai in cima al pendio, proprio sul culmine ecco quegli uomini in fila. Feci ancora qualche passo, poi mi fermai per farmi vedere. Quegli uomini erano rivolti verso l'altra parte. Pensai che stessero osservando qualche reparto in ritirata. Poco dopo l'ultimo a sinistra si voltò indietro e mi vide, fece qualche passo verso di me, per vedermi meglio, poi mi gridò: « Camerat, edi suda », che in russo credo che voglia dire di andare lassù. « Povero me, son russi anche questi! »; allora pensai di fuggire giù per dove ero salito. Quello, visto che indugiavo e non eseguivo il suo ordine, mi ingiunse « Bi­stro » che vuol dire di far presto o spicciarsi, allora io gli risposi « sicias » che vuol dire adesso vengo, ma invece mi alzai e giù a tutta velocità per la discesa.

Fatti pochi passi quello incominciò a spararmi, mi sparò una de­cina di colpi, io questa volta non mi voltai nemmeno pensando che se non mi colpiva subito, poiché dopo altri pochi passi il terreno di­ventava molto più ripido, quello non mi avrebbe più visto; infatti, raggiunta la ripida discesa quello noti mi vide più, arrivai giù sulla strada, la attraversai, scesi giù ancora passando vicino a quelle due case isolate, le oltrepassai e feci ancora un cento metri di terreno pianeggiante ed arrivai sull'orlo di una scarpata che andava giù come una slavina dove sotto vi era un boschetto. Feci giù due passi per la scarpata, e mi voltai a guardare se quel tale mi aveva inseguito. In­fatti erano scesi tutti e due quelli con le tute bianche, erano vicino a quelle case e guardavano qua e là, mi avevano perso di vista, sem­bravano due segugi che avevano perso la lepre. Allora venne anche a me la tentazione di gridare « Camerat, ruschi edi sudà! » ma poi pen­sai di risparmiare quelle poche cartucce che avevo ancora, e se avessi sparato avrei magari attirato l'attenzione di qualche altro, che potevo avere alle spalle.

Dopo un po' quei due non li vidi più, allora scesi giù nel bosco, per cercare un nascondiglio, mi misi dietro un cespuglio. Allora mi persi di coraggio, stava calando la notte, in paese non ci volevo an­dare per paura di farmi catturare, oltrepassare il paese era difficile senza la protezione della notte. Mi guardai attorno e vidi, su in alto, fuori del bosco, in mezzo alla campagna, un gran mucchio di paglia, pensai di andare a nascondermi in quel pagliaio. Prima di uscire dal bosco, mi fermai ancora un po' dietro un cespuglio, ad attendere la notte.

Dopo un momento che ero li passarono due russi civili appena fuori del bosco, avevano un sacco sulla schiena legato a sistema di zaino, calzavano stivaloni, avevano l'apparente età di 30 anni, cam­minavano con una certa ansia mista a timore. Pensai che quei due erano collaboratori dei tedeschi ed ora si ritiravano, mi passarono a non più di 5 metri ma non mi videro, e proseguirono alla volta del paese. Mi fermai ancora un po' li nascosto, poi quando fu ormai buio uscii dal bosco e raggiunsi il pagliaio che era sopra a circa 50 metri; mi avvicinai guardingo, quando fui vicino mi fermai ancora un momento a guardare se vi era qualcuno nelle vicinanze e rassicu­ratomi mi arrampicai sul pagliaio. Anche là sopra vi era un po' di neve gelata, incominciai a scavare per farne una tana; la. paglia che tiravo su la mettevo attorno alla buca. Quando ci potei stare rannic­chiato mi cacciai dentro, a sedere, mi levai quelle povere calze, erano tutte bagnate, me le misi sotto sperando che si asciugassero un po', mi avvolsi i piedi nel copricapo, mi levai la giubba e me la misi sopra come coperta, misi la carabina di traverso sopra il capo, mi coprii tutto di paglia anche la testa e "dissi: « Ora resto qui fin che sono morto ». Allora desiderai di essere a casa mia vicino alla mia stufa. Se in quel momento qualcuno mi avesse detto: « Accetti di tornare a casa ma vivere solo pochi giorni poi morire », io avrei accettato quella condi­zione di morire, ma'a casa mia. Allora pensai di chiedere l'aiuto a chi me lo poteva dare e ringraziai il cielo di avermi protetto quel giorno da tutti quei colpi di arma che mi erano stati sparati, pensai anche ai miei compagni che erano stati tutti catturati, però se avessero ar­rischiato, forse qualcuno avrebbe potuto seguirmi. Recitai le orazioni e anche il rosario dopo di che, mi tranquillizzai, mi venne sonno e mi addormentai.

Soldato Gino Balicco Battaglione Pontieri


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