TascapaneEstratto dalla pubblicazione RICORDI DEI PONTIERI ITALIANI IN RUSSIA, edito presso le Grafiche Mazzucchelli di Milano (maggio 1987), a cura di Angelo Basile.

 

 

Da diversi giorni il ponte gittato sul fiume Nieper era intransitabile; un colpo di cannone ben centrato dalle arti­glierie russe l'aveva ridotto in misere condizioni. Mancavano, per completarlo, circa 300 metri dei 1.500 della lunghezza del fiume; altri 200 metri costruiti su zatteroni ri­chiedevano lavori di rinforzo con funi e tavole. Il fiume era gonfio dalle recenti piogge, la corrente impetuo­sa faceva tendere al massimo le funi d'ancora. La profondità del fiume si aggirava sui 15-20 metri. Sporadicamente altri colpi di artiglieria raggiungevano il pon­te, causando nuovi danni alle strutture. I rinforzi per alimentare la testa di ponte potevano raggiun­gere l'altra riva solo con chiatte a motore, cui erano adibiti i Pontieri ungheresi.


A valle di detto ponte di legno, erano all'opera Pontieri te­deschi per ripristinare due enormi campate del ponte in fer­ro, lavoro lungo ed ingrato; i materiali venivano trasportati da portiere con personale del I Battaglione Pontieri, quindi con argani venivano sollevati ad oltre trenta metri dal pelo dell'acqua, per essere inseriti con bulloni e saldature alle strutture esistenti.
La situazione era precaria, le Compagnie Pontieri del IX Bat­taglione erano demoralizzate dall'inerzia forzata...
Erano impazienti di completare il ponte onde permettere il passaggio delle truppe già ammassate nelle retrovie, anch'esse impazienti di continuare l'avanzata interrotta.


Nella mattinata del 28 settembre, poiché nessun colpo di cannone si sentiva da molte ore, il colonnello Mortaretto, nostro comandante, ed altri ufficiali tennero rapporto e de­cisero di iniziare il lavoro, tenuto conto che il Comando ger­manico aveva assicurato che il nemico durante la notte ave­va lasciato le sue posizioni attestandosi ad oltre trenta chi­lometri.
Noi di truppa si era rinfrancati da quella quiete; d'altronde per alimentare la battaglia che si svolgeva sull'altra riva oc­correva inviare uomini e mezzi in gran quantità. Le sole portiere erano insufficienti, occorreva mettersi sen­z'altro al lavoro.
Non si poteva attendere la notte, come le norme di sicurezza prescrivevano.
Ufficiali tedeschi ed ungheresi, per l'occasione avrebbero as­sistito al nostro lavoro.
Operatori dell'istituto di propaganda LUCE ed equiva­lenti tedeschi avrebbero filmato le varie operazioni.


Il nostro morale in quelle condizioni era molto migliorato. Dopo snervanti giornate di attesa era finalmente giunta la nostra ora «X».
Il IX Battaglione, rinforzato da una Compagnia del I, era pronto!
Ci avevano avvertiti che per rendere più interessanti le ri­prese cinematografiche, alcuni nostri barchetti d'assalto, ap­prontati per la circostanza, avrebbero fatto esplodere ogni tanto delle cariche di tritolo in acqua a monte e a valle del ponte.
Verso le ore dieci, dopo aver fatto affluire alla riva del fiu­me barconi, travicelle, tavole e tutti i materiali inerenti al­l'opera, demmo il via al gittamento del ponte nel tratto mancante.
Pur essendo veloci nelle nostre operazioni, sapendoci guar­dati dalla piccola folla degli ufficiali alleati e dagli obbiettivi delle macchine di ripresa, eseguimmo il nostro compito con più entusiasmo e serenità, come se invece di essere al fronte fossimo nei nostri vecchi scali in Patria in un normale ad­destramento.
Dopo poche ore il ponte già stava per raggiungere la riva opposta; i colleghi ungheresi rattoppavano il tratto costruito con portiere e zattere con i più strani materiali di emergen­za; nel cielo in alto un ricognitore che noi ritenavamo dei nostri, volteggiava a grande altezza.
Generali e colonnelli, che assistevano impazienti, avevano già raggiunto la riva opposta usufruendo di un traghetto; essi già si complimentavano col nostro comandante, quan­do all'improvviso ripetuti scoppi ruppero il silenzio. In un primo tempo non facemmo caso a quel rumore, si supponeva che facessero parte della messa in scena per la gioia degli operatori.
Pensavamo: ecco gli scoppi di tritolo che i barchetti d'as­salto fanno esplodere.
Ciò che ci faceva dubitare era il fatto che detti scoppi erano preceduti da sibili inconfondibili al nostro udito, dal sinistro significato.


Smettemmo per un attimo il lavoro, guardando attorno a noi, anche per renderci conto di quanto succedeva. Mi avvidi di un trambusto in prossimità della sponda di ar­rivo; guardando meglio e dando la voce ai miei commilitoni, vidi una cosa alquanto insolita: generali ed altri ufficiali os­servatori in disordinata corsa raggiungevano la terra ferma per cercare rifugio nei ricoveri già approntati e che erano serviti da trincee per le truppe della testa di ponte. Nella loro disordinata fuga si scontravano con noi Pontieri che incuranti trasportavamo i materiali necessari per porre fine al lavoro.
Molti di essi non pratici, in quella confusione mettevano i piedi in fallo, inciampando, e se non cadevano nei barconi cadevano in acqua chiedendo disperatamente aiuto. Noi, pur intimoriti dai colpi che incominciavano a cadere, per fortuna a molta distanza in acqua, spronati dai nostri capisquadra in breve tempo completammo con l'ultima im­palcata il ponte, ed in ordine raggiungemmo anche noi i rifugi.
Dai nostri ripari vedevamo il nostro amato ponte che a volte veniva centrato dai precisi colpi delle artiglierie russe; qual­che barcone veniva colpito e, nell'affondare, trasportava con sé il materiale delle impalcate.
Molti di noi si erano attardati a completare le strutture per fissare le travicelle di ghindamento ed erano così rimasti im­bottigliati sul ponte stesso; non potevano andare né su di una riva né sull'altra.
Doveva per forza cessare quell'ira di Dio che si era scatenata. Ricordo che a trenta metri da noi, che eravamo riparati, giunge sul ponte un preciso colpo che colpisce un barcone dove vi erano diversi nostri amici.
Vediamo con sgomento molti di essi volare nell'aria assieme a schegge di tavole, urlando; molti ricadono nell'acqua che in un baleno li trascina lontani dai nostri sguardi. Qualcuno, ricaduto sul ponte, geme di dolore e viene soc­corso alla meglio dagli amici che erano rimasti incolumi. Però le artiglierie germaniche piazzate in buon numero sulla nostra riva amica, iniziano un furibondo bombardamento sulle linee russe.


Non ho mai assistito a così violento fuoco di controbatteria; il rumore era ossessionante e bisognava per forza tapparsi le orecchie.
Come a Dio piacque, dopo un'ora ritornò la calma. Ci riac­cingemmo all'opera sostituendo i pezzi mancanti del ponte e dopo due ore di febbrile lavoro si poteva dare l'agibilità del ponte con il relativo transito.
Contemporaneamente al via, iniziò il transito ininterrotto, anche per tutta la notte, di truppe, automezzi con riforni­menti vitali, con artiglierie di ogni calibro; nei momenti di pausa si dava via libera al transito di ritorno e vedevamo passare i feriti portati a braccia dai prigionieri russi. Quanti ne abbiamo visti passare; l'aria attorno a noi si riem­piva di grida e di lamenti che stringevano il cuore. Per molti di loro la guerra era finita! L'afflusso di tutti i rinforzi permise ai tedeschi, e successiva­mente al nostro Corpo di Spedizione, di ricacciare il nemico creando una relativa calma attorno a noi.

 

Le nostre perdite furono di 22 morti, una trentina di feriti e di 12 dispersi; quest'ultimi erano quelli caduti nel fiume, la cui fine doveva considerarsi certa.
Ricordo quest'episodio che ho omesso di scrivere prima; uno degli ultimi barconi, che doveva affiancare la testa di ponte per ricevere le travicelle, era stato colpito da una gragnuola di schegge che aveva ferito i quattro uomini dell'equipag­gio, lasciando illeso il pilota.
Il barcone, trascinato dalla corrente, stava per sbattere con­tro il ponte già fatto, ma il pilota con abile manovra, aveva raddrizzato il natante, ed a tutta velocità passava fra il pon­te e la riva, in uno spazio di circa 15 metri. Nell'avvicinarsi il pilota gridava: presto gettatemi una cro­ciera affinché il barcone si potesse fermare; ricordo che pur nel trambusto un certo Ferraboschi, con prontezza di spirito e di riflessi, approntò la crociera; quindi facendola volteggiare nell'aria al momento opportuno la lanciò a mo' di lazo verso il pilota che con maestria l'afferrò. Lasciando il remo che gli serviva da timone, fissò l'estremità della corda all'ormeggiatolo di poppa; contemporaneamente il Ferraboschi aveva fissata l'altra estremità ad una campa­nella di prua del suo barcone, quindi all'ormeggiatolo. La sua prontezza salvò sicuramente la vita sia al pilota, sia ai quattro barcaioli imbarcati con lui e gravemente feriti. Per tale azione ebbe poi una decorazione; se l'era ben me­ritata!


A sera nei nostri accantonamenti con i commilitoni si com­mentava con amarezza la perdita di tanti amici, delle assi­curazioni avute che il nemico era da noi distante oltre trenta chilometri e che si poteva operare con una certa sicurezza! L'invio delle macchine da ripresa cinematografiche, la messa in scena degli scoppi di tritolo, il gittamento del ponte in pieno giorno (contrario alle regole di guerra), dopo tutti gli addestramenti notturni fatti in Patria, che rendeva il lavoro più lungo ma evitava sorprese, come quella del mattino. La regola del Pontiere è quella di lavorare in silenzio, per evitare che il più piccolo rumore non arrivi alle orecchie del nemico in special modo quando si sa che l'acqua è un buon conduttore di rumori, anzi li ingigantisce. Senza tutta quella messa in scena, quei rumori provocati, noi tutti eravamo certi che il ponte si sarebbe fatto ugualmente, nel massimo ordine, nelle ore notturne.


Tutto ciò fu forse voluto? Occorrevano per forza dei caduti?
Noi poveri soldati di truppa non sapremo mai ciò che fu sta­bilito negli alti gradi, sia nostri, sia alleati! Certo che gli ufficiali di Stato Maggiore italiani e di altre na­zionalità non fecero certamente una bella figura davanti a noi soldati di truppa.
Mi spiego meglio, per rendere l'idea; mentre noi si lavorava, pur sotto il pericolo di essere colpiti, essi cercavano dispera­tamente riparo nelle trincee, scavalcandosi l'un l'altro, senza badare alla gerarchia.
Sia io, che gli altri miei amici, ne serbiamo un cattivo ri­cordo!

 

 


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