Da Porta la vacca al toro, Vittore Querèl, Trevi Editore, Roma, 1973

 

Quel 28 dicembre del 1941 erano giunti gli “ordini per la costituzione della linea Zeta”. I Comandi retrospettivi davano disposizioni di mettersi subito al lavoro per rafforzare le posizioni “in cui svernare”.

Ma, quel giorno, molte di quelle posizioni erano ancora in mano ai Russi. Indipendentemente dai Comandi superiori, si continuò a combattere finché la battaglia si esaurì, finché si poterono conquistare le quote utili per una sistemazione difensiva.

Fino al giorno prima c’era stata molta neve; anche all’imbrunire del 27 era caduta fitta, ma con l’alba era venuto fuori un freddo secco che aveva raddoppiato i gradi-meno, portandoli a cifre paurose.

Dentro quel gelo, con le mani fredde anche portando i guantoni, il naso che minacciava di congelarsi, il grasso delle mitragliatrici che diventava pietra, la 10ª Compagnia dell’82° andò a prendersi Ploskji.

Nonostante i Russi, le loro batterie, i loro mortai.

Nonostante l’agguato del laghetto ghiacciato, invisibile per la neve distesa ovunque, una vera trappola in cui i Russi ci lasciarono infilare senza spararci addosso, aspettando che un intero plotone arrivasse al centro; poi, d’improvviso, ecco i colpi di mortaio che rompono la superficie ghiacciata e inghiottono i fucilieri.

Andò meno male di quanto si potesse credere. I soldati se la cavarono. Il gelo raddoppiò la loro furia. Presero d’assalto le case del paese in cui i Russi erano asserragliati, non ci fu più tempo di pensare al ghiaccio che era entrato in corpo.

Fu l’ultima azione di quella Battaglia di Natale.

I Sovietici furono snidati casa per casa. Non si fecero prigionieri.

 

 


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