Don Oreste Cerri era cappellano militare della Divisione Sforzesca. Nell'approssimarsi dell'anniversario della morte del sacerdote (avvenuta il 26 febbraio 1996), ecco un racconto fornito da Renzo Proserpio (Sezione U.N.I.R.R. di Lecco), che ringraziamo per il contributo.

 

Da  Eroi senza croce e senza medaglia, di Marco Crestani, Edizioni Villaggio del Fanciullo, 1974, Vergiate  (VA)

 

La sera del 16 dicembre [1942] tutti sono accovacciati nei loro rifugi di fronte ai quali io celebro la Messa. [...]

Vi era qualcosa di insolito nell’aria. Si notava un movimento di soldati poco distante dalla vecchia chiesetta, della quale non restavano che muri smozzicati alti qualche metro; vi erano le scuole dove durante il giorno sono stati disposti su barelle tutti i feriti che giungono dalla linea portati dai soldati di sanità.

L’ufficiale del Comando della Divisione Sforzesca  avvicina frettoloso il cappellano e gli grida in un orecchio: “Siamo accerchiati dai russi. Il fronte è in rotta!”

Carico subito tutti i feriti sui camions che il Comando mette a disposizione, senza rendermi conto della gravità della situazione; chiamo nel contempo i porta-feriti e con essi porto fuori le barelle caricandole poi sugli autocarri; sono oltre un centinaio e bisogna metterle un poco strette per fare posto a tutte e finalmente la colonna dei feriti e dei congelati agli arti si muove. Ad un tratto un camion si arresta, il terreno viscido ha ceduto, la ruota anteriore gira a vuoto, strisciando sulla neve ghiacciata.

Visto vano ogni tentativo, l’autista ferma il motore, estrae dal retro del camion un piccolo badile: io prendo il piccone ed insieme cerchiamo di liberare la ruota e fare lo scivolo in modo che possa uscire dalla buca.

Sento quindi il piccone che batte su qualcosa di duro come fosse di metallo. Butto il piccone nel timore che si tratti di una mina e mi servo delle mani per allontanare i pezzi di ghiaccio.

Ad un tratto sento qualcosa sotto le mani irrigidite dal freddo; le scaldo soffiandoci sopra, e continuando l’opera distinguo chiaramente la forma di un cerchio e grido all’autista che impaziente mi guarda: “Qui vi è qualcosa! Sembra la forma di una campana.”

 

Don Oreste Cerri

 

 

Alzo lo sguardo e vedo i resti della chiesetta. Allora non ho più dubbi; si scava attorno, si tolgono i detriti di ghiaccio ed ecco apparire la campana.

Con l’aiuto dell’autista, in un baleno, è tratta fuori dalla buca, è pesante, forse mezzo quintale.

Subito viene la domanda: “Che cosa ne facciamo?” Un’idea mi balena: la carico sull’auto dei feriti e penso: “Chi sa che non riesca a portarla in Italia!”

Subito fatto, grido all’autista di aiutarmi a sollevarla, e poi ai feriti: “Ragazzi fate largo alla campana... Portatela con voi in salvo, non abbandonatela e che Iddio vi accompagni.” 

“Lasci fare cappellano, non l’abbandoneremo. Se saremo salvi anche la sua campana sarà portata in salvo.”

“Addio ragazzi, arrivederci e buona fortuna.”

La colonna di automezzi è già in moto e scompare lentamente alla mia vista nell’oscurità. Un pallido raggio lunare rompe la cortina di nebbia, poi più nulla; solo il ronzio metallico dei motori. Quindi silenzio.

Ritorno sui miei passi, do un ultimo sguardo melanconico alla chiesetta distrutta, mi muovo verso quei ruderi, entro nella parte dove sono ancora visibili i resti dell’altare e la sobria croce di marmo spezzata; mi adagio in un angolo e, così rannicchiato, attendo l’albeggiare.

 

Nella foschia dell'alba, prima ancora che la prima luce potesse diradare la fitta nebbia, sento un insolito movimento di camions, di carrettini guidati da soldati rumorosi ed i passi lesti di soldati in fuga.

La pista era segnata da oggetti abbandonati. Ho un senso di cedimento e rimango attonito a contemplare la scena, accodandomi poi ai primi che passano vicino. [...]

Tosto mi affretto a seguire la pista segnata nella neve ove ogni tanto mi fermo a prendere fiato, raggiungendo poi il primo gruppo che trascina a stento qualche congelato. Non lontano scorgo delle isbe isolate; grido ai più vicini di andare a cercare qualche slitta per caricare quei ragazzi che altrimenti cadrebbero sfiniti sulla neve. Ne troviamo due; le stesse donne russe ci aiutano a legare i cavalli e via di corsa. Lungo il percorso carichiamo tutti quelli che incontriamo e che si trovano nell'impossibilità di proseguire il cammino.

Altri ne incontriamo lungo la pista e facciamo la stessa operazione; slitte e carrettini che portano feriti e congelati aumentano sempre di più. [...]

Le notti insonni non si contano più; gli stimoli della fame si fanno sempre più sentire, mentre le speranze di trovare una via di scampo si fanno sempre più scarse. “Solo un miracolo ci può salvare!”. Sento gridare da molti, mentre altri dallo sguardo sfiduciato e triste chinano il capo e si chiudono nel loro silenzio come se avessero perso ogni speranza.

Con uno sforzo supremo cerco di farmi forte e nascondere la mia profonda emozione con voce fievole, quasi soffocato dal pianto faccio loro coraggio, invitandoli a sperare in un miracolo che non dovrà tardare. [...]

        

A Rykovo ci troviamo tutti uniti.

Subito però notiamo vuoti incolmabili nei diversi reparti che si vanno a mano a mano ricostituendo, mentre reparti interi coi rispettivi comandi sono assenti, di cui nessuno conosce la sorte. [...]

Della campana neanche un lontano ricordo, tanto è stata travolgente la ritirata ed inenarrabili i pericoli superati in quelle epiche giornate.

Siamo tutti riuniti nella grande piazza di Rykovo, dove viene fatto il censimento dei superstiti e vengono consegnate nel contempo le medaglie al valore dei più meritevoli.

In quella circostanza viene fatto anche il mio nome: io mi presento dinnanzi al comando per ricevere quanto mi è stato assegnato.

Sono appena tornato al mio posto occupato antecedentemente fra i miei soldati quando ad un tratto mi sento colpire con energia alla spalla destra da una mano pesante: mi volto sorpreso ed ecco un soldato che mi abbraccia forte e mi grida: “Don Cerri, la sua campana è salva! L’ho con me!” 

Non esito un istante, mi unisco a lui e, via di corsa, verso il suo accampamento, dove accanto al suo zaino, su un poco di paglia, rivedo la campana.

Con uno slancio spontaneo mi butto su di essa e l’abbraccio come se avessi ritrovato la persona più cara al mondo e poi con l’aiuto dell’attendente la porto con me, deponendola accanto al mio giaciglio, senza mai abbandonarla.

 

Nel febbraio del 1943 la tradotta militare di Jassinovataja ci porta attraverso i paesi e le città già da noi conosciute verso il confine polacco. Dopo dieci giorni di viaggio, eccoci giunti finalmente a Udine per il periodo di contumacia e finalmente ritornati nella nostra città di Novara, donde la Divisione Sforzesca era partita un anno prima.

 

[Don Oreste Cerri]

 

La campana riportata in Italia da Don Oreste Cerri

 

La campana, rientrata in Italia, è custodita al Sacrario di Vergiate (VA).

Edificato nel 1955 in memoria dei Caduti e Dispersi della Campagna di Russia,

il Sacrario si trova presso il Villaggio del Fanciullo, struttura di accoglienza fortemente voluta da Don Oreste Cerri.

 

 

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