Da I più non ritornano, Eugenio Corti, Ugo Mursia Editore, Milano, 1990
[n.d.r. Ad Arbuzovka...]
Sopra i feriti, le loro rigide coperte, i loro cappotti a pelliccia, i loro cenci, si era formato un leggero strato di polvere di neve.
Qualcuno di essi, muovendosi, l'aveva in parte disgregato.
Ma la neve intatta, e l'immobilità assoluta di altri, mi avvertirono che quanto temevo era accaduto: non pochi durante la notte s'erano trasformati in pezzi di ghiaccio.
Sollevai qualcuna delle coperte e dei cappotti che coprivano anche la testa, e i visi m'apparvero impietriti nel giallore della carne umana congelata.
Ricordo uno di quei morti: ferito al ventre, era stato fasciato alla meglio. Probabilmente non si poteva muovere, e chi l'aveva fasciato non s'era curato di rimettergli in ordine gli abiti, perciò la parte di mezzo del suo corpo era rimasta nuda. Quell'uomo doveva essersi congelato a cominciare dal ventre.
Tolsi e feci togliere coperte e cappotti ai morti, per distribuirli ai vivi che attendevano di morire.
I soldati erano molto restii a compiere tale operazione; per farmi ubbidire fui costretto a minacciarli con la pistola.
Provvidi anche, personalmente, a spogliare alcuni cadaveri che giacevano tra le più vicine case del paese. Era un'impresa ardua, perché le loro braccia avevano acquistato il rigore del ghiaccio: sotto i miei strappi reiterati i cadaveri dondolavano tutti d'un pezzo.
Quelle pellicce mi attiravano molto, in quanto io n'ero tuttora sprovvisto, ma riuscii a non tenerne per me neppure una: tutte le portai agli infelici che, vedendomele in mano, urlavano per averle e, impossibilitati a muoversi, se le disputavano tra loro gridando coi denti scoperti.